Recensioni, Teatrorecensione — 16/06/2021 at 10:13

A che punto è il ricordo? Macbeth, le cose nascoste di Carmelo Rifici: un elogio del passato.

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RUMOR(S)CENA – TEATRO ARGENTINA – ROMA – Siamo più o meno tutti figli dei versi di Shakespeare, tutti cresciuti negli intrecci e trame che gli anni ci hanno portato a continui dubbi da snocciolare ogni giorno, come preghiere di un rosario da proferire a bassa voce negli angoli più remoti della Terra, mentre assaggiavamo l’incertezza dettata dal dubbio dell’umano che ci circondava. Macbeth è l’opera del male che corrode l’uomo, mangiandolo nelle viscere come se fosse una serpe interiore. Un male che aleggia come ombra e ovunque ci accompagna nei passi di un cammino in crescendo e agisce nell’incoscienza, nella apparente pazzia.

«Quel che l’uomo osa, ardisco io: fatti avanti in forma d’orso di Russia irsuto; o d’armato rinoceronte o di tigre arcana, prendi qualunque altra forma e non questa e i miei saldi nervi non tremeranno. O torna vivo e sfidami in un deserto, spada alla mano: e se mi vedrai tremare stimami pure il bambolo di una bombetta. Via! Ombra orrenda, beffa incorporea, via dalla mia vista!»1

Sono mani che non si purificheranno più da quel rosso di un peccato commesso, figlio di inappagate bramosia e potere. Sono mani di un bambino puro che si sporcano per sempre perché accecato dalla corona pretesa, forse, più dal suo doppio, dal proprio alter ego al femminile, Lady Macbeth, la parte psichicamente malata dell’ “eroe”, la perversa consigliera e istigatrice che, alla stregua di un serpente velenoso, usa il marito come uno strumento per raggiungere il potere e soddisfare la propria cupidigia.

foto Studio Pagi

Entrambi vittime di loro stessi, di fronte a uno specchio in frantumi, di fronte a una realtà nera e tetra, sotto tuoni di una tempesta continua che aizzerà gli animi al peggio e che macchierà il bianco. Adamo ed Eva dopo il morso della mela. «Non siamo mai preparati alla cattiveria altrui e alla nostra anche. Come si può gestire quella parte negativa di sé?»

Da questo dubbio umano che mette al muro lo spettatore il regista Carmelo Rifici rielabora l’intero dramma shakespeariano in una chiave analitica, nel termine più fedele della parola. Da cosa deriva il marcio di una “Danimarca interiore” ? Quale più recondito trauma ha sedotto e condotto l’uomo ad azioni inaspettate, prima di tutto per se stesso? Rifici sembra voler rispondere principalmente a questo quesito scavando nell’inconscio, fendendo bene la psiche umana con un coltello aguzzato e pronto ad andare più giù, sempre più giù, laddove gli occhi sono rivoltati all’indietro, perché condotti al buio interiore da un “maleficio”.

Parte integrante del progetto sono state le sedute di analisi, guidate da Giuseppe Lombardi, psicoanalista junghiano, e Luciana Vigato, psicoterapeuta, nelle quali, gli attori hanno ripercorso, in bilico tra le proprie esperienze personali e le suggestioni dell’opera, i temi del testo. Insieme ad Angela Demattè e alla drammaturg Simona Gonnella, Rifici ricrea dal testo classico una continua tragedia contemporanea, intimista, che porta a una ulteriore ricerca speculare per chi assiste all’intera pièce.

La scenografia, firmata da Paolo di Benedetto, ci conduce su un palco nero come la notte, quella insonne del peccato quella da cercare costantemente nel passare del tempo. Tre bacinelle, due laterali una frontale. Una sedia al centro che accoglie, a mano a mano, i diversi performer e una fuori proscenio, con seduta una donna che dà le spalle allo spettatore: potremmo essere noi a rivolgere le stesse domande a tutti quegli attori che si siedono, si rilassano e rispondono su un proprio vissuto, rapporto conflittuale, usanze? Gli stessi che vediamo riflessi su uno schermo prima unico, poi doppiato, poi triplicato (quasi come vedere il trittico baconiano  “Three Studies of Lucian Freud” ) mentre colloquiano e ascoltano lo psicoanalista junghiano Giuseppe Lombardi? O potremmo soltanto essere noi che vorremmo proferire quelle parole e dire che sì, che ciascuno di noi si è ritrovato in quella medesima situazione, per chiudere il cerchio magico del teatro, che appropria e congiunge attore e spettatore?

crediti foto Studio Pagi

Alessandro Bandini, Alfonso De Vreese, Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Leda Kreider/Marta Malvestiti, Maria Pilar Pérez Aspa, Elena Rivoltini entrano con lentezza, a uno a uno prima e poi in coppia alternata, come dentro a un sogno, come dentro a un ricordo sfumato del passato, di quel passato che si rievoca nel presente e che può spiegare le azioni. D’altronde:

«Alle azioni noi non siamo che novizi»2.

E in quello stesso ricordo, rievocazione che emerge da un confronto di chiacchierata dal registro naturale, quasi spontaneo, improvvisamente, come nel cunto siciliano al mulinare della spada in alto nel momento più elevato della racconto che veniva “cuntato”, gli attori entrano nei personaggi recitando i versi della tragedia: tutti i presenti sono Macbeth e Lady Macbeth marcando una recitazione aulica ma realista allo stesso tempo e dimenando il corpo in preda alla pazzia o bramosia più totale dettata dalla necessità ardente di potere. Gianni Straropoli comprende il significato firmando luci introspettive:dal nero ecco che si passa al rosso acceso, il colore del sangue che segna il tragico cammino dei protagonisti/attori verso la pazzia. Fuoriesce il diavolo dall’uomo e dalla donna, come fuoriescono i misteri di un’infanzia siciliana evocata dall’attore Tindaro Granata nella spiegazione del rito della fascinazione e del malocchio: il compimento della fattura attraverso il sale, olio e tre croci disegnate sul corpo per eliminare i “vermi da dentro”, quegli stessi che mangiano il neo Re.

La tradizione siciliana si mischia con la tradizione della tragedia shakespeariana come a designare l’attaccamento profondo per la propria terra, quella che lo ha partorito e che lo risucchia poi. Fino a tornare a un presente misto di trama, la stessa che evoca un intreccio continuo tra passato presente, come tessere, infine, il destino dell’uomo.

Scorre dell’acqua su quello stesso palcoscenico dove si svolge la duplice tragedia. Un’acqua che esalta il significante stesso del testo primordiale e di quelli dei diversi attori: la purificazione che non avviene mai, però, perché il sangue ha macchiato il candore dell’uomo vulnerabile dal primo atto. La morte viene annunciata spesso da presagi funesti dalle streghe bendate e vestite di nero con sussurri: Angelo Di Genio Tindaro Granata Leda Kreider/Marta Malvestiti Alfonso De Vreese Maria Pilar Pérez Aspa Elena Rivoltini. Non c’è urlo, sussulto, se non ultimo grido nel silenzio, così come avviene per la morte del figlio di Macduff, interpretato da Alessandro Bandini: appeso nudo dai piedi e coperto, successivamente, dalle streghe e ricoperto, poi, di vernice d’oro per mutarsi in Ecate, dea lunare, accompagnatrice dei morti. Il tutto durante la spiegazione della morte del maiale, altro rito caro nel sud Italia. Ma al sonno/morte di tutti, il gentile e bravo Bandini, come un dio che veglia, proferirà le ultime battute che racchiudono il senso della Terra, della storia, della vita che si rigenera in continuazione, così come del male o del bene:

«È tremenda la terra, eppure il verme prima o poi diventa farfalla, ma la farfalla non si ricorda del verme; tu ricordati del verme. L’inizio è la fine, la fine è l’inizio. Il bello è brutto, il brutto è bello, tra cielo e terra ogni cosa balla».

Quale, dunque, il compito dell’arte se non quello dell’evocazione, del ricordo? Se un rito, come quello teatrale, non ha scopo evocativo, perché compierlo? La chiave analitica scelta da Rifici con un corpo attoriale, e non soltanto, di alto livello ha centrato in pieno la missione umana utilizzando, tra l’altro, uno tra i testi di Shakespeare più complessi. Niente di nuovo nel mescolare ricordi di propri vissuti con intrecci extratestuali, è vero. Prendiamo, per esempio, Polanski, il quale nel suo Machbeth (1972) si fa doppio – regista e protagonista – e dichiara le proprie emozioni sullo schermo per vendicarsi di Manson; fonde la violenza delle immagini e la violenza della parola ricostruendo uno critica sociale di quegli anni bui attraverso un parallelismo tra l’epoca medievale e il presente, tra il dramma e il suo vissuto, riuscendo a rinnovare il rapporto universale che abbiamo con Shakespeare.

Ricordare il passato è cosa saggia per giustificare il presente.

1 William Shakespeare, Macbeth, Einaudi collezione di teatro 109, traduzione di Cesare Vico Lodovici, atto terzo, p.52

2 Ivi.

Visto al Teatro Argentina il 5 giugno 2021

MACBETH, LE COSE NASCOSTE

di Angela Dematté e Carmelo Rifici

tratto dall’opera di William Shakespeare

dramaturg Simona Gonella

progetto e regia Carmelo Rifici

équipe scientifica Dottore Psicoanalista Giuseppe Lombardi

e Luciana Vigato, esperta di comunicazione non verbale e stili relazionali

con (in ordine alfabetico) Alessandro Bandini, Alfonso De Vreese, Angelo Di Genio, Tindaro Granata,

Leda Kreider/Marta Malvestiti, Maria Pilar Pérez Aspa, Elena Rivoltini

e con (in alternanza) Angela Dematté, Simona Gonella, Carmelo Rifici

scene Paolo Di Benedettocostumi Margherita Baldonimusiche Zeno Gabaglio

disegno luci Gianni Staropoli – video Piritta Martikainen assistente alla regia Ugo Fiore

scene e costumi realizzati dai Laboratori di Scenografia e Sartoria del Piccolo Teatro di Milano – corone Alessandro De Marchi

Produzione LAC Lugano Arte e Cultura

in coproduzione con Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa,

ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione

in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina

partner di ricerca Clinica Luganese Moncucco

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