TARANTO – Taranto e i suoi vicoli, sull’isola, la città vecchia, stretti, strettissimi, per cui sbocchi sul mare e respiri, come liberato da qualcosa di opprimente fra l’angusto e il senso di pericolo avvertito per le viuzze, meravigliose. Nei giorni di Start-Up, a fine settembre, quando l’estate comincia a (tra)vestirsi d’autunno in quei vicoli si sente parlare di teatro. Tra genti normalmente non abituate a farlo, non abituate alla visione. Se ne parla non come farebbero certi intellettuali radical-chic dell’ultima ora, o enciclopedie umane del sapere nozionistico, egocentrici dell’autoerotismo culturale; se ne parla alla spiccia, alla buona, in un dialetto a stento comprensibile ma che arriva, si fa capire. “Hai fatto come quello dello spettacolo di ieri mò” fa un pescatore a un altro sul molo, e quello risponde: “Io sono come quell’altro, quello che voleva mettere la bomba all’Ilva” (lo spettacolo di cui si parla è Capatosta del Crest).
Nel reale approdo sociale e quotidiano, si concretizza il risultato della programmazione del Festival Start-Up, ormai consuetudine nel panorama teatrale italiano, vetrina sul teatro contemporaneo. Un Festival atteso dalla città, dal territorio, da un Sud che stenta non soltanto per incapacità propria ma per disattenzione e poca lungimiranza di amministratori o figurine di governo (politico e culturale) che lo guardano da lontano e di cui sulla questione se ne riempiono la bocca nelle orazioni elettorali. Il teatro, allora, anche come evasione. La in-lusio dell’irreale, del reale rappresentato sul palcoscenico, paradossalmente più denso, più intenso, a livello percettivo, della realtà. Per dirne e prenderne coscienza. Guardarla con spirito rinnovato. Incidere su processi attitudinali. Quasi una ventina di spettacoli nell’edizione appena scorsa distribuiti su quattro giorni molto intensi.
Il primo, giorno, con i padroni di casa del Crest a replicare Capatosta, l’apertura ai Cantieri Koreja di Lecce, con un rifacimento in chiave pop di Gogol – Il matrimonio – ; il poco riuscito Piero Della Francesca dei Capotrave prodotto da Kilowatt Festival (poco riuscito se non altro per un senso di noia avvertito in platea da quasi l’interezza degli spettatori) e l’attesissima opera di Armando Punzo: Paradiso – Voi non sapete la sofferenza dei santi. Un’opera commissionata dal Teatro Pubblico Pugliese, mastodontica per mole scenografica, per maestranze utilizzate, per l’occhio e la suggestione audiovisiva, non altrettanto brillante nel resoconto generale di fruizione, nell’efficacia di significanti e significato, nell’approdo di una semiotica scenica purtroppo stucchevole e apparentemente poco generosa verso un pubblico affamato d’altro, considerato il tema (dolore, sacrificio, martirio). L’intelleggibilità destinata alla mutevolezza dell’immagine silente (considerevole), all’azione iconica corale, a segni attoriali (non trattandosi di attori professionisti) lievi e compresenza spaziale/scenica pregnante; la figura per massa plasmata dalla mano del regista (di cui se ne conosce lo spessore e i successi), fanno conseguire soddisfazioni dei sensi, delle sensorialità, ma un rimanere in superficie, nell’ aisthetikos. Se ne apprezza la manifattura, riconoscendo l’arte di un regista conclamato, ma finisce lì. Un’occasione mancata.
Venerdì 25 settembre, secondo giorno di festival: la freschezza della compagnia Equilibrio Dinamico sveglia in mattinata gli animi assopiti di operatori e teatranti. I giovani pugliesi di Fasano, confermano la dimestichezza con il fare artistico creando in un terreno scivoloso, il teatro-danza. Scivoloso perché meno sdoganato del teatro puro, un linguaggio a cui si è poco acculturati, e nei Festival il rischio è di passare in sordina. Non è successo a Confini Disumani della coreografa Roberta Ferrara, nemmeno trentenne, scientemente capace di mescolare topoi universali a stilemi originali, riconoscibili in un firma autoriale tracciata come orma nei suoi ultimi lavori approdati al grande pubblico (tra i riconoscimenti la vittoria della decima edizione del Festival Troia Teatro). Chiarezza di intenti e immediatezza tematica fanno della compagnia i punti di forza, ricamando l’affabulazione coreutica tenendo in equilibrio espressionismo contemporaneo e rigore tecnico. Indagando e riportando dell’uomo, animale sociale in società.
Un quartiere in scena, il rione Forcella, di Napoli, famigerato per la cronaca nera, grazie alla sensibilità e il ricamo scenico di Marina Rippa e Alessandra Asuni. Lo spettacolo, ppe’ devozion’, tra i selezionati alla rassegna “Teatri del Sacro”, si dipana per quadri di internarrazione, cunti, azione drammatica sbrogliata dalle protagoniste: 17 donne del quartiere, con occhi limpidi e volti trasparenti. La purezza dell’ingenuità (in termini di professione, di non essere attrici professioniste) in costruzione scenica che ricorda gli spaccati napoletani della Lina Wertmuller, le pagine di Marcello D’Orta, la filosofia popolare di Luciano De Crescenzo e il melò della sceneggiata partenopea. Delicato e irruente. Sensibile e leggero. A tratti uguale a se stesso ma di fruibilità progressiva.
Chiude la giornata Di a da in con su per tra fra Shakespeare, di Serena Sinigaglia con la regista e attrice in scena e con Arianna Scommegna e Mattia Fabris. Una lezione di teatro, nel senso pedagogico del termine: attori perfetti, forse troppo, regista impeccabile di cui non è nuovo il talento, frammenti di spettacoli di repertorio curiosamente ‘radiografati’ teatralmente. Una garanzia. Non si può parlare negli stessi termini, purtroppo, dello spettacolo di César Brie, che, pure, garante di “ecumenicità” teatrale lo è. Il suo lavoro dal titolo “La volontà frammenti per Simone Weil” si realizza in una logorrea testuale poco o per nulla verticale, come la parola scenica dovrebbe essere quando rivolta direttamente al pubblico, graziata dall’interpretazione dell’ottima Catia Caramia. Benchè parte del pubblico riconosca un notevole affetto all’artista veterano Brie, non si può negare un certo patetismo presente nelle ultime visioni. Lacrime e nichilismo, malinconia di ideali sepolti, cifra immaginifica e di creazione appartenente a una corrente teatrale non più viva sul palcoscenico. Onore alla carriera, sì, ma riuscire a intercettare linguaggi stimolanti al pubblico del nostro presente non sarebbe male.
Vale più o meno lo stesso discorso per Therese et Isabelle di Valter Malosti, altro veterano delle scene: si avverte nell’abbondante ora di spettacolo una staticità formale e contenutistica, avendo riadattato teatralmente le parole di Violette Leduc nel tentatico di suscitare coinvolgimento dalla sensualità di un testo incipriato di erotismo, morbosità, lirismo saffico, passione e perversione. Poco il dinamismo tra le pur conflittuali (in termini di personaggio) protagoniste, avvinghiate da un amore proibito, vissuto, con distacco da una e eccesso sentimentale dall’altra. Due microfoni, scena nuda, corpi parlanti, poesia. Debole.
Il Festival Start-Up esprime pluralità di linguaggi e responsi. A sovrapporsi alla vivacità d’un città, in cui prende vita, altrettanto plurale e contraddittoria. Restituendone umori, odori, pelle carne sangue. Pratiche mediterranee. Buone pratiche del teatro.