BOLZANO – Un soldato rimasto vivo in trincea, dopo quel gran botto, l’esplosione che l’ha lasciato vivo e smemorato di sé, eppure memore delle memorie dei suoi compagni, dei loro nomi, dei loro dialetti. Dialetti che fluiscono in un’unica lingua, che mescola parole e si fa voce unica, coro di tragedia greca che racconta la paura, la solitudine, i cinque sensi resi esasperati dalle privazioni e dall’orrore. La vista racconta il buio e i lampi, l’udito gli scoppi e le grida, l’odorato il fetore di morte di sangue e di corpi non lavati, il gusto la miseria del rancio, il tatto la costernazione delle mani. Ignoto di sé ma non degli altri, Mario Perrotta non interpreta il sopravvissuto, è il sopravvissuto, lo è nei gesti e nelle espressioni, nel racconto affannato di sprazzi dolorosi, nel ritmo di una narrazione che scivola fluida in un monologo senza respiro, che unisce amici e nemici nello stesso tragico destino di trincea. Seduto sui sacchi di sabbia, unico corpo rimasto vivo in mezzo al viscidume del fango e dei pidocchi, corpo che è tanti corpi, che ha i nomi di tutti ma non ha più il proprio, scrive lettere che possono essere di tutti e sono indirizzate a tutti, genitori e fratelli, figli, madri, sorelle, mogli, fidanzate, ed invoca il silenzio e il ricordo per sé e per i tanti morti, e l’oblio di una targa cancellata e resa bianca per coloro che quei morti li hanno provocati.
“Mi sento l’inutile addosso” è la sua unica consapevolezza, che non conosce ideali, non conosce Patria. I grandi personaggi della Storia, quelli delle dichiarazioni di guerra e dei proclami, dei titoli sui giornali che solo pochi sanno leggere, i pensatori e gli intellettuali, sono lontani per chi conosce solo la misura del proprio piccolo mondo; sfilano sullo sfondo della quotidianità e dello sperdimento della guerra nella lettura semplice che ne fa un soldato semplice, lontano dalla politica, dai fermenti della lotta di classe, dell’irredentismo e dell’interventismo che infiammarono quegli anni, e che fecero scrivere a Filippo Turati (in una lettera inviata ad Anna Kuliscioff) queste poche parole di buon senso:“ La guerra è come la malattia; può uccidere, indebolire e niente altro e non ci farà né più ricchi, né più saggi, né più produttivi, né più liberi, né più onesti né più felici di quello che siamo”. Di buon senso ed ancora molto attuali, spesso citate, e inascoltate. Alla fine dello spettacolo cala il buio. I grandi direttori d’orchestra misurano l’effetto dell’intensità della loro esecuzione dalla durata del silenzio sospeso che trascorre dall’ultima nota allo scrosciare dell’applauso; dopo l’ultima parola di Mario Perrotta così è stato, nel dilatarsi di un lungo momento di sospensione a riprova dell’atmosfera in sala, di coinvolgimento emotivo reale e profondo.
Mario Perrotta
MILITE IGNOTO Quindicidiciotto
Visto a Bolzano, Teatro Comunale di Gries, il 16 gennaio 2015; Teatro dell’Argine per la Rassegna “Un altro sguardo-Arte della diversità/Ein anderer Blick-Kunst der Vielfalt”