MILANO – C’è stata una stagione in cui il teatro era essenzialmente un teatro di parola, quasi che il corpo dell’attore fosse solo un intermediario inevitabile, una sorta di “male” necessario; l’accento veniva invece posto su quel che diceva, sul suo senso e la sua portata. Così non era importante scegliere un fine dicitore, quanto piuttosto un narratore capace, che, consapevole o meno dei preziosismi della dizione, conoscesse a menadito i meccanismi della fascinazione. E c’è stato un tempo, ancora prima, in cui il teatro era fatto non da attori, ma da marionette e la voce del puparo era sirena, fil rouges e gran burattinaio, scaltro nel tirare i fili dell’immaginazione degli astanti, prima ancora che delle sue inanimate creature. E prima ancora gli aedi, i rapsodi e poi i cantastorie, quasi a ricordarci il fascino ancestrale della parola, della sua musicalità e del prodigioso miracolo di trasferire un’emozione e un senso al di qua di un contatto, anche solo visivo, con l’altrui fisicità. I radiodrammi e, a parte quelli, anche solo la voce suadente o scanzonata, che affiora dagli altoparlanti dei mass media – e quella sottile, profonda, cupa, cinguettante o argentina di chi ci leggeva le favole, da piccoli, accarezzandoci la fantasia mentre le nostre orecchie si colmavano di suggestioni e gli occhi si appesantivano in un altrove.
A tutto questo mi ha fatto pensare “Monsieur Teste”, romanzo di Paul Valery, di cui Chiara Guidi ha offerto una trasposizione per la scena, qualche giorno fa, all’interno della rassegna di drammaturgia contemporanea Tramedautore, consueto appuntamento (dal 2001 anticipa idealmente l’inaugurazione della stagione teatrale milanese. Il nuovo direttore artistico è il regista Benedetto Sica). Sul palco con Michele Rabbia (percussioni, elettronica) e Daniele Roccato (contrabbasso, elettronica), hanno offerto un’esperienza sicuramente sofisticata e spiazzante, rispetto ai tradizionali canoni dell’arte attoriale. Un assetto asciutto ed essenziale – anche in questo caso in accordo con quel teatro di parola, che non ricerca fronzoli realistici per sostanziare la sua azione scenica -, idealmente tripartito dalle presenze diversamente affascinanti dei due musicisti, ai lati, e, al centro, la stessa voce-Guidi, di nero vestita, di spalle, con cappello da uomo dalle falde presumibilmente calate sul volto, da cui fuori esce la sua inconfondibile lunga treccia.
Un fondale di luce blu Cina e, al di sopra di lei, una sagoma scura – una luna carbonizzata? Un gong, ma immobile ed afono? -, ciclicamente in eclisse con la sfera lattiginosa, proiettata, che incessantemente dondola, col movimento amplio e quasi a ritmico di un metronomo impalpabile. Impossibile non restarne affascinati. L’attacco è minimalista con percussioni talmente centellinate e delicate da esser percepite come il suono sottile di una pioggerellina di primavera – incredibile constatare come fossero emesse da un apparato strumentale, che non aveva nulla da invidiare a quello di un concerto rock E anche il pianto del contrabbasso – a volte struggente, altre monocorde e quasi ipnotico nel ripetere in modo ossessivo le variabili di una medesima nota… e, a tratti, fuggente e impetuoso come un prestissimo indiavolato dietro a sonorità arabeggianti – accompagna e, a volte, sostituisce la voce narrante. Perché il punto è ancora questo: la voce.
Se Chiara Guidi, infatti, sceglie di portare in scena una pagina di filosofia, lo fa affidandosi non tanto a una comunicazione diretta e assertiva, ma restituendoci anzi tutto il sottotesto attraverso codici emozionali e metarazionali. E’ la sua stessa voce, la vera protagonista. Più ancora di quel che dice, è il come, quel che ci affascina. Si fa piccola e quasi spaesata a raccontare il fanciullino, che si affaccia alla vita con quelle rigidità, che il perfezionismo adolescenziale impone a molti; e poi tuona imperiosa oppure bisbiglia quasi inaudibile, a restituircene gli spaesamenti e gli sbalzi d’umore. Altre volte cinguetta o fuoriesce senza quasi intonazione, specie nel controcanto a quella, spesso dolente e disincantata, di Monsieur Teste, suo alter ego. Ma non c’è tempo: ce lo dicono il racconto, il flusso di coscienza, quell’ossessivo eterno ritorno delle lune e delle loro quadrature in eclissi; ce lo dice anche il coro dei metronomi e lo stridio struggente che s’inarca sotto lo strofinio dell’archetto.
Quel che ci portiamo a casa, allora, è un’esperienza totalizzante, il cui la parola e questo teatro “diversamente di parola”, ci suggestionano e rapiscono, complice anche un’attenzione ottimamente centellinata alla perfomance vocale e allo studio attento delle partiture e contropartiture di musiche e suoni. Uno spettacolo sofisticato; eppure all’uscita dallo spettacolo, intercetto un gruppo di studenti liceali entusiasti: li fermo, provo a sondarne i pensieri. Una di loro, Federica, è colpita dalla profondità di quella visione e, stupita, chiosa: “E’ pazzesco perché dice cose che vorresti dire tu, ma lo dice in un modo che…”. Non riesce a terminare la frase, sopraffatta dall’emozione del ricordo di quanto appena visto. Certo, le parole sono quelle di Paul Valery; però il medium sacerdotale in questo caso è una Chiara Guidi, che se n’è fatta così intimamente interprete da incarnarne la portata.
Visto al Piccolo Teatro di Milano Paolo Grassi il 14 settembre, all’interno della stagione Tramedautore, con la nuova direzione artistica del regista Benedetto Sicca.