RUMOR(S)CENA – GENOVA – Teatro e Musica, anzi Teatro in Musica, sempre somiglianti e coerenti, insieme eguali a sé stessi dal Settecento ai giorni nostri, ma, a mio parere, ciò che contraddistingue l’erede e gli eredi contemporanei dell’Opera classica o tradizionale è proprio il come è strutturato e articolato il rapporto dell’uno con l’altra, ovvero, se preferiamo, dell’altro con l’una. Un rapporto in cui scolora la sempre accettata subordinazione del testo e della parola rispetto alla musica, che in effetti era non solo preminente ma soprattutto veniva ‘prima’, una subordinazione per la quale la parola era in sostanza un significante, un segnale simbolisticamente linguistico per rendere maggiormente perspicuo il significato del significante musica.
In tempi più vicini a noi il rapporto si è trasformato un po’ alla volta in una sorta di parallelamente convergente, per utilizzare, mutandola, l’espressione politica di Aldo Moro, autonomia reciproca, quella che, ad esempio, Edoardo Sanguineti ha praticato, anche teorizzandola, nelle sue lunghe e feconde collaborazioni e frequentazioni con Luciano Berio soprattutto, e poi più recentemente con Andrea Liberovici. Una parallela convergenza che però non esclude il contrasto fino all’aperto conflitto, anzi in un certo senso lo presuppone, nella comune ricerca di una coerente composizione narrativa e di un superiore impasto musicale, ritmico ed armonico, al livello del transito scenico, della ‘rappresentazione’ e nella relazione cognitiva e significante con il pubblico.
A Midsumer Night’s Dream, capolavoro del 1960 di Benjamin Britten, ovviamente dal conterraneo William Shakespeare, credo ne sia un bell’esempio soprattutto, se mi si consente, in quanto l’accesso alla ‘rappresentazione’ è innanzitutto drammaturgico, per l’ovvia forza ‘intimidatoria’ del testo ma anche per scelta del compositore, in questo caso anche librettista insieme al compagno tenore Peter Pears, che poco interviene sulla struttura base del racconto, solo semplificando i passaggi meno fluidi, ma piuttosto ne cerca una sostanza a suo estetico intuire più nascosta e consapevole che il Bardo, come suo ripetuto modus scribendi, ha celato nella sua sintassi.
Ma non solo per questo, ma anche perché drammaturgia e musica sembrano in certi passaggi raccontare ciascuna cose diverse, talora opposte, da cui quel fecondo conflitto che libera ulteriormente il suo senso più profondo e toccante, tra drammaturgia e musica ma anche tra palcoscenico e platea. È come se la musica, tra dissonanze e contrappunti, tra melodie interrotte e spigolose, tra onomatopeie e incursioni tanto spirituali da accedere al metafisico, una musica in cui confluiscono risonanze temporalmente e anche geograficamente per così dire diffuse (da Puccini a Debussy, da Stravinskji all’estremo oriente), in un fluire che la molto particolare orchestra, quasi da camera, con la sua prevalenza di ottoni e legni, di triangoli, campane e campanelli, cui la precisa orchestrazione del Maestro Donato Renzetti offre il destro per pienamente manifestare la sua efficacia, volesse metterci in guardia da ciò che stiamo guardando, da ciò in cui ci stiamo già cullando.
Non tanto per risvegliarci da onirici miraggi, piuttosto per non farci dimenticare quanto, di quei sogni, sia fatto della materia, shakespearianamente parlando, di cui siamo fatti noi e la realtà. In questo, quella di Britten, sembra (o vuole) essere una musica che paradossalmente porta la realtà, con le sue contraddizioni e le sue spine, dentro il sogno, poiché in fondo non è la realtà che è sogno, ma piuttosto è il sogno che è realtà, freudianamente custodendo di noi e della realtà soprattutto i desideri, le paure ed i dolori. In un certo senso si potrebbe dire che la Musica, rispetto alla Drammaturgia, svolge il ruolo che René Girard, il quale molte pagine ha dedicato a questo dramma, individua nel rapporto mimetico e bilaterale delle due commedie in Commedia: una farsa grossolana recitata da attori incapaci e una continuazione dell’opera più profonda, un’ulteriore decostruzione dei cliché romantici.
Rimane onirico e magico quel mondo, che la bellissima scenografia, una sorta di scatola catodica sulle soglie di accesso di una natura fredda e brulla, ma la sua gioiosità è attenuata se non rimossa da una persistente nebbiosa malinconia, che il coro di voci bianche (bravissimi tutti e il Maestro Gino Tanasini che per 9 mesi li ha preparati) sembra far scendere come una panacea, che attenua i nostri dolori, da cieli illuminati ma freddi. Come rimane anche il comico, il riso un po’ amaro che appartiene agli uomini che continuano nonostante tutto a sognare e a sperare, quel comico in cui il tragico si ribalta per farsi beffe di noi che, per un po’ o per molto, lo avevamo creduto. Una pietra di confine tra due mondi quella tentata dagli artigiani/attori (metafora metateatrale chiarissima) e da Puck attore fools, ma ben poco sicura anche se eretta su di un palcoscenico.
Ne è segnale anche la non usuale numerosità e varietà dei timbri vocali, tra cui spicca il canto, poco utilizzato in genere, del controtenore (un bravissimo Christopher Ainslie/Oberon), una voce molto suggestiva e suggestionante che è il filo conduttore occulto non solo narrativo, quasi fosse la formula di una miscela, di grande maestria compositiva, in cui far precipitare tenori, baritoni e bassi e soprani (mezzo e di agilità) per essere poi, tutti, quasi sussunti in un movimento circolare ascendente fino alle bianche voci del coro delle Fate e dei folletti.
Una Opera difficile che richiede un cast vocale composito e di grande qualità, come è stato nella sua intierezza quello della Prima, ma anche capacità di recitazione notevoli, ed anche in questo sono stati all’altezza. La numerosità dei personaggi di proscenio, e non solo di contorno, e l’intersecarsi di plurime linee narrative rende la composizione di non facile realizzazione, però non solo il Direttore Concertatore, di cui abbiamo detto, ma anche il regista (anche lui nato cantante) Laurence Dale ha saputo affrontarla con la dovuta cura, costruendo una messa in scena figurativamente ricchissima ma anche misurata, in cui i colori più accesi degradavano con efficacia verso l’ombra (del sogno e della notte) che ha costituito la nota pittorica dominante.
Costumi, in cui la creatività di Gary McCann attinge anche al genio contemporaneo di Vivienne Westwood e di Alexander McQuenn, già di per sé molto shakespeariani, richiamando consapevolmente le tradizioni rutilanti dei palcoscenici elisabettiani, a cui, come noto, non erano alieni i riferimenti alla italianissima commedia dell’arte, alle sue maschere e ai suoi poveri ma fantasiosi travestimenti. Un ottimo inizio di Stagione per il Carlo Felice di Genova, e per il suo Sovraintendente Claudio Orazi e per il Direttore Artistico Pierangelo Conte, ulteriormente arricchita, come sottolineato anche dal Presidente della Regione e dal Sindaco intervenuti a questa ‘apertura’, dal suo essere stata una prima cosiddetta diffusa, in quanto ha visto la sua contemporanea diffusione in luoghi di sofferenza della città. Un ottimo inizio, dicevo, per una stagione che si preannuncia anche quest’anno ricca e soprattutto variegata con titoli (classici, moderni e contemporanei) che non si vedono spesso sui molto tradizionali palcoscenici italiani.
A MIDSUMMER NIGHT’S DREAM Opera in tre atti di Benjamin Britten su libretto proprio e di Peter Pears, dalla commedia di William Shakespeare. Personaggi e interpreti: Oberon Christopher Ainslie, Tytania Sydney Mancasola, Puck Matteo Anselmi, Theseus Scott Wilde, Hippolyta Kamelia Kader, Lysander Peter Kirk, Demetrius John Chest, Hermia Hagar Sharvit, Helena Keri Fuge, Bottom David Shipley, Quince David Ireland, Flute Seumas Begg, Snug Sion Goronwy, Snout Robert Burt, Starveling Benjamin Bevan, Cobweb Michela Gorini, Peasebossom Sofia Macciò, Mustardseed Lucilla Romano Moth Eliana Uscidda, Changeling
Francesco Pagliarusco, Mimo acrobata Davide Riminucci, Mimi Armando De Ceccon, Francesco Tunzi. Maestro concertatore e direttore d’orchestra Donato Renzetti. Regia Laurence Dale. Scene e costumi Gary McCann. Coreografia e regista collaboratore Carmine De Amicis. Luci John Bishop. Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova
in collaborazione con Royal Opera House di Muscat (Oman). Orchestra, Coro di voci bianche e Tecnici dell’Opera Carlo Felice. Maestro del Corodi voci bianche Gino Tanasini.
.