Lo diciamo subito: la scena con la ricostruzione della dacia di campagna e le luci sono state le cose migliori del tanto spinto “Zio Vanja” per la regia di Marco Bellocchio ed un cast d’eccezione come Sergio Rubini, nella parte del protagonista, Michele Placido il Professore, Pier Giorgio Bellocchio, il figlio, il dottore, lui che già nella pellicola paterna “La bella addormentata” aveva assunto i panni da camice bianco ospedaliero. Un Cechov però non sonnolento come invece siamo stati abituati a vedere.
Ripetiamo: una casa di legno chiarissimo, quasi scialbo, senza colore, o dal colore neutro dove, nelle tre scene principali, risaltano pennellate di rosso (come il cappottino della bambina in “Schindler’s list”) che balenano agli occhi: nel primo atto è la giacca del Professore, lui che la vita l’ha vissuta a pieno in città, scrivendo e godendo della cospicua rendita che il lavoro dei suoi parenti gli procurava, nel secondo anche la giacca di Vanja si accende di vermiglio proprio quando, rosso d’ira e di vergogna, lo insegue per sparargli, infine, sul concludersi, il gomitolo rosso che, come Penelope, viene riannodato perché niente muti e cambi rispetto ad un passato di consuetudini e certezze seppur stantie.
Michele Placido e Sergio Rubini
Le luci che spostano meteo, clima esterno e ore del giorno funzionano aiutate anche dall’idea di un pannello, quasi da Luna Park, che deforma le figure ed al contempo le ingabbia, le sbatte su se stesse, non le lascia uscire, obbligandole alla continua visione di un sé deturpato e gelatinoso, forme senza forma, incapaci di avere una netta sostanza.
E alberi dechirichiani con rami sparsi, la famiglia, senza un busto solido a sostenerli, tendenti a Magritte. Il tempo passa placido, si sente la lentezza, si percepisce l’insoddisfazione, lo stallo, l’apatia, l’ozio, l’anonimato, il soffocare, la depressione, il provincialismo, l’assenza di vita, di felicità, la noia, lo spleen, la rassegnazione, la meschinità ed il vuoto, la staticità, la pigrizia, le vite non vissute, l’immobilismo, la decadenza, la staticità, il parassitismo, il limbo, la mancanza di speranza: “La vita è una lunghissima fila di giorni”. Il tempo è una pappa uniforme, il tempo è una marmellata che si spalma sulle ore, che fa cappa alle lancette.
Ciò che scatena la rabbia e che, dopo un momento di stasi, sfilaccia e disintegra i rapporti parentali tra Vanja e il Professore, creando una frattura tra gli abitanti del borgo ed i “cittadini”, è l’illusione, e la conseguente disillusione, di una perdita di tempo nel foraggiare e sovvenzionare uno pseudo intellettuale che nella vita ha passato il tempo a pubblicare qualcosa ma soprattutto nei salotti a discorrere di massimi sistemi. Nella dacia spersa e lontana pensavano di sostenere un cavallo vincente che portasse avanti ed alta la bandiera della famiglia proprio dove loro non erano riusciti ad arrivare.
Placido è solido, anche se i suoi interventi e le sue scene sono comparsate mentre un ruolo decisamente più sostanziale lo ha Rubini sempre in parte anche se, nel quadro degli spari e della mancata uccisione del Professore, la butta troppo in ridicolo ed in un sarcasmo sopra le righe, dove si riconosce la brillantezza dell’attore ma lontano dal personaggio in quel momento ripiegato su se stesso. Note positive per Anna Della Rosa, Sonja la figlia del Professore (ne “La grande bellezza” è l’amata, non ricambiando, da Carlo Verdone), che già aveva interpretato questo personaggio nel Vanja con Alessandro Haber di Nanni Garella, mentre non possiamo dire altrettanto per l’ucraina Liberman (Elena) la cui voce si ode a stento.
“Zio Vanja” di Anton Cechov, adattamento Marco Bellocchio, regia Marco Bellocchio
con Sergio Rubini, Michele Placido, e con Pier Giorgio Bellocchio e Anna Della Rosa
e Lidiya Liberman, Bruno Cariello, Maria Lovetti, con la partecipazione straordinaria di Lucia Ragni. Goldenart production. Visto al Teatro Manzoni di Pistoia il 1 novembre 2013.