LODI – I quindici minuti “muti” de La Leggenda del Grande Inquisitore legano la drammaturgia operata da Umberto Orsini e Pietro Babina sul capitolo del dostoevskiano “I fratelli Karamazov” alle esperienze più radicali del teatro del ‘900. I due, rispettivamente interprete e regista, sembrano scomodare a brandelli alcuni capisaldi del teatro dell’assurdo ed in particolare per la disposizione scenica degli oggetti e per i movimenti degli attori sembrano rimandare a “Finale di partita” e all’Ultimo nastro di Krapp”. La connotazione contemporanea è messa in evidenza, invece, dall’organizzazione scenografica (e sonora, curatissima nel saturare l’ambiente) che sposta il luogo dell’azione nella corsia di un ospedale o di una camera mortuaria. La similitudine ricorda l’ultimo adattamento di “Una serata a Colono” di Elsa Morante della coppia Martone/Cecchi, ma c’è anche il bellissimo “Le relazioni pericolose” di e con Walter Malosti e Laura Marinoni a far l’occhiolino alla messa in scena di Orsini/Babina. Insomma, le situazioni estreme sembrano giovare al teatro italiano contemporaneo. Inoltre, v’è da notare che nei “testi” scomodati il doppio gioca un ruolo non solo critico e teorico. Questioni che “La leggenda” risolve, più che nelle “distorte” disquisizioni escatologico-filosofiche, nel duplice ruolo del narratore/scrittore e inquisitore e nel suo contraltare demoniaco-faustiano che s’annida letteralmente in un umanoide cibernetico di futuristica provenienza, in cui si segnala la superba prova di Leonardo Capuano.
Visto al Teatro alle Vigne di Lodi il 14 dicembre 2014