BARI – Avere coscienza. Sulle cose, sul circostante, sull’esistere. Su sé e la relazione con l’altro. Averne al punto da riuscire a rappresentare ciò che accade, con verosimiglianza e mimesi. Roba da non poco. Nemmeno da molti. Fare accadere sul palco cosa succede attorno, trasmutato dalla propria interiorità, dalla propria estetica, dall’utilizzo di tecniche e saperi, perché dall’ego si passi all’oggettivo. Al fruibile universale. Perché si crei la relazione con lo sguardo dall’altra parte. A riconoscersi, fare beffa, riflettere su ciò che esiste. Roba da non poco. Nemmeno da molti. C’è chi passa una vita a non avere coscienza delle cose. Limitandosi a emulare, nella migliore delle ipotesi. Per alcuni…sono sufficienti dieci anni. E, nel frattempo, irrobustire, scandagliare a fondo l’autocoscienza. Permettere di autodeterminarsi e determinare la scena, l’azione scenica, perché sia carica di significati, veicolati da segni.
Mangiami l’anima e poi sputala è opera prima. Di un paio di scugnizzi baresi (Riccardo Spagnulo lo è d’adozione ma le tinte sono quelle) destinati da lì a dieci anni a mangiarsi il mondo. Perché la fame (di mangiarsi il mondo) spalanca le fauci. E il talento ti fa andare spedito. Il fascino delle Fibre Parallele è risaputo. Premiato. Attribuibile, per gioco, al significato etimologico del termine: divinatorio, legato anche alla tradizione del teatro: fascinum, ovvero incantamento, malia, da cui i fescennini, prime rudimentali forme teatrali latine di origine rurale. Allora – come per i greci prima anche se in forma più democratica – il potere al centro del beffeggiarsi teatrante. Non soltanto per ridere. Per ridere e… ferire.
Ridere e ferire. Una buona sintesi per il primo spettacolo delle Fibre. In cui una parte di Sud esplode per trovarsi a raccontare di tutto il Sud esistente, come le Fibre sanno: con il naturalistico (dal punto di vista attorale), l’uso dell’imago in ottica funzionale, segni e scenari invisibili da raccogliere in stato emozionale fervido.
Certo, il materiale risulta quella pietra grezza nel corso degli anni levigata e trasformata in obelisco: inserti lasciati alla vetrina, moduli troppo in vista e ansia da prestazione. Ma la capacità di ricreare la scena rendendola magnifico teatro per anime e occhi in osmotico ascolto, caratterizza l’opera, allora come ora. La superstizione incarnata in una beghina timorata di Dio, che vede incarnarsi il miracolo dello Spirito Santo fatto uomo, sceso dalla croce, per lei. Il pensiero alla “Chiesa sposa di Cristo” è inevitabile. Figurata da una beghina è politico. Forte. Un punto di vista da prurito. Cristo con accento slavo, a dare corpo agli stereotipi dell’uomo e del potere, della menzogna ma anche dell’umanità, della vera legge, del buon senso. Un andirivieni di significati e significanti a dimostrazione dell’euforia (e la confusione) giovanile e della tematica affrontata delineando verso e controverso. Prendendo posizione. Netta. Assumere nettamente una coscienza (critica, anticonvenzionale) sull’osservato e rappresentarlo non da militante ma da artista: mostrare per indurre alla soggettiva posizione, non imporre un’oggettività. Mangiami l’anima (e poi sputala) si fa beffa del credo e del credente. Delle stupidità. Delle masse drogate dalle religioni. Del potere a cui abbassare il capo per devozione indotta.
Per due attori in conflitto (il conflitto scenico), icone e geometrie disvelanti i livelli di azione e di personaggio, cambi di scena, dialoghi, corpo. L’olio grezzo prima di raffinarsi. Sterzando, sul finale, sull’amore, sul rito dell’amore ufficializzato. Ma per dire e metaforare probabilmente il rifiuto di un Cristo contemporaneo a essere sposo della Chiesa…
Sovrapposizioni continue. Di vita, di morte, di sé.
Buon compleanno Fibre. Dieci anni e già maturi…
Mangiami l’anima e poi sputala
di e con Licia Lanera e Riccardo Spagnulo
assistente alla regia Maria Elena Germinario
luci Carlo Quartararo
scene Gianluigi Carbonara
oggetti di scena Nunzia Guacci
Visto al Teatro Abeliano, Focus Fibre Parallele – Bari, 13.01.15