Teatro, Teatrorecensione — 18/01/2016 at 22:24

La Grande Guerra: presente o passato?

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Patrimoni

La scena si colora con le tinte scure di un ospedale per reduci di guerra. Gli oggetti in scena sono ridotti all’osso. L’elemento predominante è l’attesa: come in un limbo dantesco i protagonisti sprofondano nel terrore di una possibile condanna. Nel silenzio, il rumore di una macchina da scrivere, posta al centro della scena, rompe la claustrofobica condizione atemporale entro cui sono costretti i personaggi. Lo scrosciare della pioggia sembra svegliarli come da un sonno, o forse da un incubo. È la prima schizofrenica “presa di coscienza” di uno dei soldati: «Non ho fatto niente. Non ho fatto niente. Non ho fatto niente», parole fitte e martellanti che rimandano al terrore degli austriaci nel tredicesimo reggimento di fanteria ad Asiago da parte dei soldati italiani. Sono ricordi pesanti ma alleggeriti da intermezzi di cabaret, per cui gli attori cambiano letteralmente maschera. Il camauro – così definito dal regista – è il travestimento di tessuto bianco che copre l’intero volto degli attori lasciando bocca e occhi scoperti, privandone le espressioni facciali. La maschera diventa una versatile forma satirica e caricaturale, sicché gli interpreti possono vestire gli innumerevoli ruoli riportati nel testo in poco tempo e con un notevole impatto straniante. Così in una corale esplosiva, prima tragica poi grottesca, si passa da un quadro d’arte fiamminga ad un espressionismo avanguardista che riporta in mente la Natura morta con maschere (1911) di Emil Nolde.

@Luca Del Pia
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La chiave di lettura è prettamente grottesca volta al riso satirico sulla contraddizione e la menzogna che hanno costellato il periodo antecedente allo scoppio della Grande Guerra. Anche i personaggi sono in contrasto con se stessi, apparentemente vuotati dalle eccitanti aspettative,  e dalle spasmodiche paure del destino ma profondamente consapevoli, fino all’eccesso, di un futuro come di una grande stella. Una strategia drammaturgica, questa, che s’intona alle musiche dell’allodola. Al centro di quest’amalgama di generi c’è una famiglia di ricchi industriali che produce il 45% degli armamenti bellici in Italia. Sono i Gottardi, personaggi semi-reali, che nel difendere il futuro della propria ditta finiscono col mettere in dubbio i capisaldi di un’idea, quella della Guerra come una “grande occasione”.

Tina, Maria, Lelo e Berto sono i figli alto-borghesi di questa famiglia, interpretati da Donatella Allegro, Diana Manea, Lino Guanciale e Simone Tangolo, scaraventati in una società senza tempo e priva di freni inibitori. Nella costruzione di un mondo moralmente civilizzato, quello dell’epoca “bella”, si è finiti con l’autodistruzione e la messa in crisi di credenze e ideali fino ad allora garantiti da un sistema in apparenza forte: è il mondo dei Patrimoni (dal latino pater e munus: il dovere del padre), di quei Padri che hanno a lungo determinato le sorti dell’umanità, fino al collasso. Tina rappresenta la figlia obbediente impiegata a smistare lettere nella penombra di un ufficio postale. S’innamora di un operaio socialista, interpretato da Eugenio Papalia, che lavora nella ditta di famiglia, il quale la chiede in sposa, in segreto e prima dell’arrivo della Guerra. Tina sembra rappresentare il profilo di un’Italia confusa. Così anche la Storia ha messo in luce una sola parte di quel tutto, cui fa parte anche una grande fetta dell’Ottocento, messa in luce attraverso il racconto dei Padri. Un percorso generazionale incerto che tenta di portare avanti un’idea, vecchia, diversa, contraria e fuori tempo.

@Luca Del Pia
@Luca Del Pia

L’identità dell’ante guerra, infatti, nutre un sentimento di rifiuto e si pone in contrasto al Padre terreno e a quello Divino. Una perdita di coscienza presente nei figli il cui sogno è di diventare artisti, perché «Gli attori mica muoiono in guerra? Gli attori muoiono in scena». «Ti ricordi?» forse un rimorso o forse un rimpianto. Tra amori e tradimenti, Lelo è in continua ricerca di qualcosa o forse di qualcuno cui credere, ora Josephine, ora Max, ora se stesso. Sono scene passionali ben definite dal rosso acceso dei teloni mobili che si abbinano all’abito della prostituta come a oggettivare il suo ruolo di madre partoriente di sogni, tentatrice che conduce al peccato, artefice della guerra.  La lotta con i Carissimi Padri non è ancora conclusa e in questo – nelle parole di Sanguineti – la Storia è grande maestra di Rivoluzione.

@Luca Del Pia
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