Recensioni — 18/02/2025 at 15:08

Un cuore semplice. Sogno e realtà

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RUMOR(S)CENA – ROMA – Comincia piano. Sale a lente spire. La narrazione a volte è lenta, troppo meticolosa, quasi pedagogica. Non chiara la motivazione. Poi cresce per lente onde parallele, man mano che il narrato si incarna nella figure di Mario Seghesio (1903-26), detto Gheghe, mitica meteora del calcio di inizio ‘900, come portiere dell’Andrea Doria, e della madre, suo intenso ed umile specchio emotivo. Uno spettacolo intrigante ”Quell’ultima parata”, scritto e diretto da Fabrizio Bancale, già in scena nel 2015, ed ora tornato a Roma allo Spazio Diamante. Intrigante proprio perché ti spiazza giocando su due pedali, coinvolgendoti mentre cerchi il centro. Due pedali. Il sogno e la realtà, che pian piano invadono la cronaca un po’ pedante del narratore in scena. Il sogno del giovane popolano genovese di appartenere al calcio, di seguire le orme del mitico Franz Calì (che a tratti è forse il narratore), calciatore dell’Andrea Doria nei primi vent’anni del ‘900, e capitano della nazionale italiana nel 1910. La realtà della storia che intorno cresce da pirotecnico stupore evolutivo della modernità alle spire soffocanti della corruzione capitalistica prima, e poi della violenza nazifascista. Il sogno e la realtà.

E la narrazione che tenta di ricucire il senso della ferita del loro scontro. Sono tutti un po’ narratori in questo spettacolo, i tre attori in scena. Lo speaker, l’elegante e controllato Urbano Lione, equilibrista virtuosistico su una non chiara motivazione interiore. Ma anche Gheghe e la madre, che ora vivono al presente, ora ricordano e commentano. Senza sempre una chiara logica, ma che pian piano invadono, passando dal narrato all’incarnazione, con crescendo emotivo gestuale e di toni, in cui entrambi, a modo loro, come diremo poi, eccellono.

Il racconto oscilla qua e là, prima di incanalarsi nella corsa finale. Si parla della storia del calcio nella sua forma primitiva, per passare alla figura di Calì, la cui famiglia va in rovina per un assalto di pirati (mafiosi?), e che dall’esilio svizzero importa in Italia il calcio. Poi l’obiettivo, da Calì come protagonista dell’Andrea Doria, si focalizza su Genova, col mitico stadio la Cajenna, e sull’eterna rivalità tra l’Andrea Doria e il Genoa, rispettivamente squadre degli operai e dei signori. Sono state messe le armoniche.

La fantasticheria infantile, l’avventura, l’isola del tesoro, i pirati, la Cajenna (lo stadio) come il carcere della Guiana. E la realtà che uccide e distorce fantasia e sogno. Operai e padroni. E Mario Seghesio è figlio di operai, ed assiste al licenziamento del padre per sciopero. Ed i pirati diventeranno i fascisti che militarizzano le partite e truccano gli incontri, per far vincere il  Bologna del gerarca Arpinati.

La realtà si chiude sempre più come un carcere sullo sgomento Gheghe, ostinato nel suo sogno di ragazzo. Cuore semplice, ostinato, ma non cieco. Anzi, sottilmente angosciato. E’ semplice ed ingenuo nel suo amore per la francese Sonia, attivista anti regime, che inutilmente tenta di aprirgli gli occhi sulla politica, e che non verrà a vederlo allo stadio probabilmente perché arrestata. Non capisce, ma vede, intuisce. Patisce la mancanza di lei e degli amici come pubblico alla sua ultima grande partita, contro il Pisa. Ora gioca col Doria. E’ un portiere famoso. Anche se forse lo deve al fatto che la prima leva di calciatori è stata falciata dalla guerra, portando all’inclusione degli junior. Lo stadio è un teatro ora di soli fascisti, e per lui la ribalta è qui solitudine e prigione.

Para un tiro violento imprevisto dell’attaccante, ma l’urto della palla gli spacca i polmoni. Mario Seghesio, nel 1926, a 23 anni, muore dissanguato. È storia, pura casualità. Ma in questa cornice risuona come simbolo, come se lui fosse l’incarnazione della purezza crocefissa della violenza fascista. Un sogno che muore nel sangue, senza rinunciare. Un sangue evocato anticipatoriamente anche dalle ultime cronache intervallate al flusso della narrazione, dove si parla di macchine fasciste a tutta velocità contro la folla di manifestanti che a Genova ricordavano, protestando, l’omicidio Matteotti. L’ultima parata.

Siamo nel 1926. Possiamo dire simbolicamente che con la messa fuori legge dei partiti ormai il fascismo segna libero, senza portieri. In definitiva i due pedali confluiscono nel dramma storico, che tuttavia ancor più mette in risalto la verghiana innocenza senza parole di Gheghe. Innocenza e violenza si autoevidenziano reciprocamente, come nell’estetica a forti contrasti, in bianco e nero, del cinema muto. In tal senso bella idea registica e di testo il basso continuo che accompagna a intervalli, scandendoli, narrazione e vissuti in scena. Ciclicamente infatti l’attrice madre sale sui tre cubi a fondo scena, come su un podio, e si fa speaker della storia, scandendo le varie annate, dal 1920 al 1926. Lei indossa una larga veste bianca, che spalanca ad ala, e proiezioni la investono ed attraversano mentre elenca fatti d’epoca. Se nel 1910 tuttavia l’elenco è gioioso e progressista (futurismo, dirigibili, mago di Oz), più cupo il 1915, con l’entrata in guerra (e Gheghe a terra che piange abbracciato al pallone). Ma geniale il 1922, dove nell’elenco compaiono Stalin e Mussolini. Le proiezioni in sovrimpressione sono infatti, nel suo impressionante bianco e nero, quelle del Nosferatu di Murnau.

Il podio della storia come podio della violenza annunciata. Lo stesso su cui a fine spettacolo, cristico patetico, Gheghe (già morto?), sale trionfante, a braccia alzate, gridando, “Sono un campione”. Veniamo ora più vicino al fatto scenico. I ruoli sono scanditi con chiarezza geometrica in una icastica tripartizione scenica. Il narratore a sinistra, in piedi. La madre prevalentemente a destra, seduta o meno su un cubo. Al centro Gheghe, e dietro il podio della storia. Per Gheghe è stato scelto – splendidamente incarnato da Giuseppe Franchina – un registro infantile, esclamativo, che a malapena, col crescere del dramma, si trasforma nello sgomento dolente di un’anima semplice. Gheghe esclama, esulta, si agita, gioca con la madre giochi di parole. Nel calare del dramma si fa coccolare, abbracciato. Resta un po’ il dubbio di un eccesso retorico di candore infantile. Ma nel controluce ricercato, funziona. Chi eccelle veramente è lei, Gaia Riposati (Madre, Sonia, la storia), nel gestuare come madre la propria umile maternità d’accompagnamento al sogno del figlio, anche se non condiviso. Parla d’altro, parla di lui, lo sprona allo studio, gli cucina. Esulta, si preoccupa, lo consola. È più complessa.

E Gaia Riposati lo fa alla grande, con commovente e sfumata mobilità del viso, del gesto, dei toni. E varietà di toni e gesti sa trovare pure come speaker storico, sempre meno neutrale. Il tutto in definitiva converge ad una intensità concertante crescente, e convincente nel climax emotivo finale. Ed il pubblico aderisce con calore.

”Quell’ultima parata”,la storia verosimile di Mario Seghesio e del suo sogno

scritto e diretto da Fabrizio Bancale  – con Giuseppe Franchina (Mario Seghesio), Urbano Lione (Uomo, il padre, Franz Calì), Gaia Riposati (Madre, la storia, Sonia). Musiche: Pericle Odierna. Scene: Massimiliano Persio Costumi: Antonietta Rendina. Disegno luci: Alessandro Iannattone. Creazioni video: Giovanni Marolla. Ufficio stampa: Andrea Cavazzini – produzione Emotions in Music

Visto allo Spazio Diamante di Roma il 13 febbraio 2025

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