Co-Scienze — 18/04/2019 at 09:03

Pietro Bartolo: “il medico dei salvataggi” che soccorre e cura la vita di tutti. Dal mare di Lampedusa ad un’aula della facoltà di medicina di Modena, nel racconto di Virginia Di Vivo.

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Pietro Bartolo fa il medico sull’Isola di Lampedusa e oltre ad avere una specializzazione in ginecologia ne ha un’altra conseguita andando a soccorrere in mare: il medico dei salvataggi, così viene definito da chi lo conosce bene e lo vede ogni qual volta ci siano delle vite in pericolo da salvare. Domenica 14 aprile ha ricevuto il Premio “Nassiriya per la Pace” dall’Associazione culturale Elaia a Marina di Camerota, dove ha presentato anche il suo libro (scritto in collaborazione con il figlio Giacomo Bartolo) “Le stelle di Lampedusa. La storia di Anila e di altri bambini che cercano il loro futuro fra noi” (Mondadori editore). Il Premio ha cadenza biennale ed è rivolto a persone che si sono distinte nel campo sociale e in attività di promozione della pace. Anche la Società Marittima di Mutuo Soccorso di Lerici (fondata nel 1852) ha scelto di consegnarli il Premio “Società Marittima alla Solidarietà in Mare 2019″: «per l’attualità dell’emergenza profughi che non conosce fine». Un medico che da più di venticinque anni presta soccorso e cura uomini, donne e bambini che arrivano a Lampedusa. Nel 2016 ha vinto l’Orso d’oro al festival del cinema di Berlino come protagonista del documentario “Fuocoammare” del regista Gianfranco Rosi. Nel 1988 è stato nominato responsabile del gabinetto medico dell’ Aeronautica militare a Lampedusa; nel 1991 ufficiale sanitario delle isole Pelagie e dal 1993 diventa responsabile del presidio sanitario e del poliambulatorio sull’isola dove lavora e vive. Nel 2016 firma insieme a Lidia Tilotta “Lacrime di sale. La mia storia quotidiana di medico di Lampedusa fra dolore e speranza” (Mondadori editore).

Pietro Bartolo crediti foto www.onuitalia.com

Il suo impegno nella medicina lo contraddistingue per aver accolto e curato centinaia di migranti, facendosi carico di un lavoro sanitario anche in condizioni precarie com’è il presidio di Lampedusa. Si distingue per essere sempre presente in situazioni di estrema difficoltà: come nel 2013 quando accorse per cercare di salvare più vite umane nell’incendio e successivo affondamento di un’imbarcazione con a bordo oltre 500 persone, dove le vittime accertate sono state 368. Tutta la comunità di abitanti di Lampedusa si prodigò per alleviare le sofferenze dei naufraghi. «Non potrò mai dimenticare tutti quei bimbi dentro ai sacchi neri, vestiti a festa, come i nostri. Le mamme li avevano preparati per far far loro bella figura in Europa», queste le parole di un medico e di un uomo capace di parlare con il cuore a chi lo ascolta. Tra questi c’è anche Virginia Di Vivo, una giovane studentessa della facoltà di Medicina e Chirurgia di Modena che dopo aver ascoltato il dottor Bartolo, relatore al Congresso studentesco MoreMed, ha sentito la necessità di testimoniare per iscritto le sue emozioni sulla sua pagina facebook.

«Mi reco assonnata al congresso più inflazionato della mia carriera universitaria, conscia che probabilmente mi addormenterò nelle file alte dell’aula magna. Mi siedo, leggo la scaletta, la seconda voce è sanità pubblica e immigrazione: il diritto fondamentale alla tutela della salute. Inizia a parlare il dottor Pietro Bartolo ma non so chi sia. Non me ne curo ma sento la sua voce in sottofondo: non parla di epidemiologia, di eziologia, non si concentra sui dati statistici di chissà quale sindrome. Parla di persone. Continua a dire “persone come noi”. Racconta che a Lampedusa ha curato 350mila persone e c’è una cosa che odia: “fare il riconoscimento cadaverico e molti di loro non hanno più le impronte digitali” – deve prelevare dita, costole, orecchie – e spiega che ”le donne sono tutte state violentate e arrivano spesso incinte. Quelle che non lo sono non dipende dal fatto che i trafficanti hanno somministrato loro, in dosi discutibili, un cocktail antiprogestinico, così da essere violentate davanti a tutti, per umiliarle. Senza rischi, perché le donne incinte sul mercato della prostituzione non fruttano”.

Virginia Di Vivo: «Ma non era un congresso ad argomento clinico? Dove sono le terapie? Perché la voce di un internista non mi sta annoiando con la metanalisi sull’utilizzo della sticazzitina tetrasolfata?»

Su questi barconi gli uomini si mettono tutti sul bordo, come una catena umana, per proteggere le donne, i bambini e gli anziani all’interno, dal freddo e dall’acqua. Sono famiglie. Famiglie come le nostre”. «Il dottor Bartolo mostra una foto ma non è retorico, né formale. È fuori da ogni schema politically correct, da ogni comfort zone.»

Una notte mi hanno chiamato: erano sbarcati due gommoni, dovevo andare a prestare soccorso. Ho visitato tutti, non avevano le malattie che qualcuno dice essere portate qui da loro. Soffrivano di patologie comuni che potrebbero avere chiunque e si possono curare con terapie banali e innocue. Altri sono stati scuoiati vivi per farli diventare bianchi” – mostrando una foto dove si vede un giovane, che avrà avuto quindici anni, affettato dal ginocchio alla caviglia – :”sopravvissuto agli esperimenti immondi che gli hanno fatto. Suo fratello, invece, non ce l’ha fatta, è morto per essere stato scuoiato vivo. Mi avvisano di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo in qualcosa che sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita. Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti li, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro – spiega il medico di Lampedusa – con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti. Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare”.

«Tutti trattengono il fiato in silenzio» – prosegue la studentessa di medicina – , trascrivendo ancora le parole che emozionano: “Ma ci sono anche cose belle, cose che ti fanno andare avanti. Una ragazza. Era in ipotermia profonda, in arresto cardiocircolatorio. Sembrava morta. Ho cominciato a massaggiarla a lungo e all’improvviso l’ho ripresa. È stata ricoverata 40 giorni. Si chiama Kebrat e ora vive in Svezia. È venuta a trovarmi dopo anni e aspettava un bambino. La gente non capisce. C’è qualcuno che ha parlato di razza pura. Ma la razza pura è soggetta a più malattie. Noi contaminandoci diventiamo più forti, più resistenti. E l’economia? Queste persone, lavorando, hanno portato miliardi nelle casse dell’Europa. E io aggiungo che ci hanno arricchito con tante culture. A Lampedusa abbiamo tutti i cognomi del mondo e viviamo benissimo. Ci sono razze migliori di altre, dicono. Si, rispondo io. Loro sono migliori. Migliori di voi che asserite questo”.

Virginia spiega nel suo lungo e dettagliato resoconto il commento di Bartolo durante la proiezione di un video: ”Questo è un parto su una barca. La donna era in condizioni pietose, sdraiata per terra. Ho chiesto ai ragazzi un filo da pesca, per tagliare il cordone. Ma loro giustamente mi hanno risposto “non siamo pescatori”. Mi hanno dato un coltello da cucina. Quella donna non si è lamentata. Mi sono tolto il laccio delle scarpe per chiudere il cordone ombelicale. Lei mi ringraziava, era nera come il carbone. Suo figlio invece era bianchissimo. Si perché loro sono bianchi quando nascono, poi si inscuriscono dopo una decina di giorni. E che problema c’è, dico io, se nascono bianchi e poi diventano neri? Ha chiamato suo figlio Pietro. Quanti Pietri ci sono in giro!”.

«Sorridiamo tutti» commenta Virginia...

Quest’altra donna, invece, è arrivata in condizioni vergognose, era stata violentata, paralizzata dalla vita in giù e incinta. Le si erano rotte le acque 48 ore prima. Ma sulla barca non aveva avuto lo spazio per aprire le gambe. Usciva liquido amniotico, verde, aveva una grande sofferenza fetale. Con lei una bambina violentata di soli 4 anni. Aveva un rotolo di soldi nascosto nella vagina e si prendeva cura della sua mamma, tanto che quando cercavo di mettere le flebo alla mamma lei mi aggrediva. Chissà cosa aveva visto. Le ho dato dei biscotti. Lei non li ha mangiati. Li ha sbriciolati e ci imboccava la mamma. Alla fine le ho dato un giocattolo: ci arrivano una montagna di giocattoli perché la gente buona c’è. Ma quella bimba non l’ha voluto. Non era più una bambina ormai. Questa foto invece ha fatto il giro del mondo – prosegue Bartolo – lei è Favour. Hanno chiamato da tutto il mondo per adottarla. È arrivata sola. Ha perso tutti, il fratellino, il papà. La sua mamma prima di morire per quella che io chiamo la malattia dei gommoni perché ti uccide per le ustioni della benzina e degli agenti tossici, l’ha lasciata ad un’altra donna, che nemmeno conosceva, chiedendole di portarla in salvo. E questa donna, prima di morire della stessa sorte, me l’ha portata. Ma non immaginate quanti bambini, invece, non ce l’hanno fatta. Una volta mi sono trovato davanti a centinaia di sacchi di colori diversi, della Guardia di Finanza e della Polizia. Dovevo riconoscerli tutti. Speravo che nel primo non ci fosse un bambino. E invece c’era. Era vestito a festa. Con un paio di pantaloncini rossi, le scarpette. Perché le loro mamme fanno così. Vogliono farci vedere che i loro bambini sono come i nostri, uguali”.

«Pietro Bartolo ci mostra un altro video dove si vedono dei sommozzatori che estraggono da una barca in fondo al mare dei corpi esanimi – “non sono manichini – ci dice, e un uomo tira fuori dall’acqua un corpicino senza vita. Quel bambino è il mio incubo. Io non lo scorderò mai”. Non riesco più a trattenere le lacrime -scrive Virginia – e il rumore di tutti coloro che, alternandosi in aula, come me, hanno dovuto soffiarsi il naso. “Questo è il risultato – mostrando un’altra foto – 368 morti e 367 bare. Si, perché in una c’è una mamma, arrivata morta, col suo bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. Sono arrivati insieme. Non abbiamo voluto separarli, volevamo che rimanessero insieme, per l’eternità”. Il dottor Bartolo ha parlato per un’ora di seguito. Gli altri relatori hanno lasciato a lui il loro tempo e nessuno ha osato interromperlo. E quando ha terminati tutti noi, studenti, medici e professori, ci siamo alzati in piedi e abbiamo applaudito a lungo. Ci spiega che non ha bisogno di aiuto: “Non venite a Lampedusa ad aiutarci, ce l’abbiamo sempre fatta da soli noi lampedusani. Se non siete medici, se non sapete fare nulla e volete aiutare, andate a raccontare quello che avete sentito qui, fate sapere cosa succede a coloro che dicono che c’è l’invasione. Ma che invasione!. E io non mi espongo, perché non so le cose a modo. Ma una cosa l’ho capita. E cioè che questo è vergognoso, inumano, vomitevole. E non mi importa assolutamente nulla del perché sei venuto qui, se sei o no regolare, se scappi dalla guerra o se vieni a cercare fortuna: arrivare così, non è umano. E meriti le nostre cure. Meriti un abbraccio. Meriti rispetto. Come, e forse più, di ogni altro uomo».

Trascrivere le parole di questa testimonianza del dottor Pietro Bartolo, tramite il resoconto di Virginia Di Vivo, riporta alla mente un viaggio sull’isola di Lampedusa che feci per conoscere di persona cosa accadeva durante gli sbarchi. Fotogrammi rimasti impressi nella memoria: il cimitero che accoglie le vittime; i resti delle barche accatastate in porto; la spiaggia dei conigli, celebre in tutte le guide turistiche, dove sembra impossibile che le tragedie descritte dai media possano realmente esistere. L’acqua cristallina e i colori pastello della sabbia crea una sorta di estraniazione dalla realtà se si ha la fortuna di non vedere galleggiare i cadaveri. I pescatori nei loro racconti mi spiegavano come intuissero l’arrivo delle imbarcazioni prima ancora degli avvistamenti, non per aver ricevuto informazioni da fonti esterne ma per la loro conoscenza delle correnti, del mare in bonaccia e del meteo favorevole. I racconti di uomini dediti alla pesca traumatizzati per quelle che trovano nelle reti: resti umani. Sulla sommità dell’isola l’ex base Nato sono ancora visibili le installazioni dei radar: un tempo adibiti a sorvegliare le coste dei paesi africani e della Libia a poche miglia da Lampedusa. L’accoglienza della popolazione generosa dimostrata ogni qual volta arrivava uno sbarco di migranti. I voli giornalieri sbarcavano centinaia di turisti e altrettanti in partenza con i rimpatri. Il centro di accoglienza recintato dal filo spinato a poche decine di metri dalle case degli abitanti. Un isola dove coesistono sentimenti contrastanti e la contraddizione che la fa essere ospitale e accogliente e luogo di dolore e sofferenza.

Crediti foto Pietro Bartolo www.onuitalia.com

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