GENOVA SESTRI PONENTE – “L’attore è rimasto senza scena. Purtroppo solo solo un monologo. Fino al tramonto”: parola del Teatro Magro di Mantova che nella loro essenzialità si distingue per la ricerca che seguono da sempre. Poche parole sufficienti a cui affidare il significato di una ricerca, il cui senso è quello di raccontare da dentro cos’è il teatro. Il protagonista con la sua presenza scenica si avvale della parola declamata, recitata, esasperata, per dire che si può recitare “Senza Niente” – il monologo di Alessandro Pezzali – al cospetto del suo pubblico. Il mestiere dell’attore declinato in tutte le sue forme, descritto nelle sue molteplici varianti, quali e quanti ruoli si possono interpretare.
Il teatro comico, dell’assurdo, il teatro serio e quello più scanzonato. L’attore e le sue mille facce. Solo le parole per raffigurare e incarnare maschere e generi. Il protagonista solo in scena, squaderna con una facilità stupefacente qualunque interpretazione, sempre supportata da registri ironici e a volte sarcastici, alleggerendo e usando lo stile della sottrazione, liberandosi da qualunque convenzionalità che possa impedire di fatto la recitazione volutamente sopra le righe, pensata dal regista Flavio Cortellazzi e affidata all’attore talmente efficace da calarsi con un’adesione stupefacente nei tanti stili attoriali. Si percepisce un’ironia che tocca per primo la stessa condizione dell’artista e del teatro in generale, smitizzandolo come potrebbe essere quello dell’opera lirica o di una certa prosa classica impegnata e seriosa.
Raccontare il teatro in maniera divertente ma senza mai scadere nel banale o nel grottesco. L’attore svela la scena ma soprattutto ciò che il pubblico non vede dalla platea: il retro palco, le ansie da debutto, l’attesa spasmodica prima di iniziare, le implicazioni di un mestiere sottoposto ad un logorante stile di vita, l’incertezza, condizione esistenziale a cui gli artisti difficilmente possono sottrarsi. Tutto questo viene proposto con un agire delicato che rende la prova di Pezzali un ritratto poetico e lieve; racconta di un’umanità spesso ignorata dal grande pubblico, là dove ci si accontenta e ci si beata nel godere della celebrità di turno, del fascino della star o del divismo che non manca di certo anche a teatro. Cadono gli stereotipi e i falsi miti con “Senza Niente”, e avanza la realtà fatta di tanta fatica e rinunce. Non è tutto oro quello che luccica e Teatro Magro lo sa bene.
Il disincanto provato in prima persona è lo strumento per decodificare la realtà della scelta artistica di fare teatro, complessa, variegata. Il distillato di un lungo lavoro di preparazione dall’esito per nulla scontato. Non poteva esserci scelta più efficace da parte del Teatro Akropolis organizzatore della quinta rassegna di teatro: Testimonianze ricerca azioni che si è svolta a Genova tra aprile e maggio, nell’ ospitare lo spettacolo nelle sale di Villa Rossi, un edificio capace di suggestionare per il suo fascino decadente memore di fasti ormai lontani. L’atto unico rappresenta il primo di quattro azioni sceniche che toccano i ruoli principali di chi fa teatro. Le altre sono il produttore, l’amministratore e il regista.
Un’indagine sul sistema professionale e artistico di una realtà non sempre valorizzata a pieno per chi lo deve sostenere anche economicamente, dandogli il giusto riconoscimento culturale per dare impulso ad una società in evoluzione, fortemente scossa da inquietudini e insicurezze. La ricerca e l’analisi che porta a questi risultati visti è la strada da seguire per molte altre realtà artistiche della scena contemporanea, orientate più ad una creazione estetica per ottenere il gradimento di un pubblico a cui non viene chiesto di interrogarsi e riflettere. Oggi non ce lo possiamo più permettere di restare estranei. Il teatro è lo specchio in cui ci dobbiamo confrontare, rappresenta ognuno di noi e le nostre aspirazioni a cui tendiamo. Si chiama vita. Quella vita che in molte realtà dell’Italia, specie al sud viene affrontata in perenne emergenza, così come raccontata da un gruppo di Modena: Il Teatro dei Venti che si distingue per la sua ricerca anche nel campo del disagio sociale e della sofferenza psichica più in generale, senza però farne un genere definito esclusivamente teatro sociale.
L’associazione a cui fa capo Nido dei Venti nasce nel 2002, offrendo possibilità di confronto e scambio a giovani professionisti che operano nel campo delle arti performative. A questo scopo nel 2005 i soci fondano il Teatro dei Venti – Centro per la Ricerca Teatrale e la compagnia stabile Teatro dei Venti. Avevamo conosciuto questa interessante realtà artistica nel 2013 a Modena, in occasione della seconda edizione di “Trasparenze-Atelier della scena contemporanea” , diretta da Agostino Riitano e Stefano Tè, ideatori di una rassegna che possa “predisporre le condizioni affinché l’esperienza dell’incontro possa generare cambiamento in tutti coloro che sceglieranno di essere attori”.
Il loro modo di intendere il teatro affronta spesso realtà di emarginazione come lo è “Senso Comune”, visto al Teatro Akropolis di Genova- Sestri Levante. Un lavoro ispirato alle storie degli utenti del Centro di Salute Mentale di Modena, dei detenuti della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia e dei ragazzi della Casa di Reclusione per minori di Nisida. Uno spaccato di vita degradata collocata in un luogo divenuto nel tempo un simbolo di una città in cerca di un riscatto morale e sociale, difficile da realizzarsi: Scampia, quartiere periferico di Napoli, dove la legalità troppo a lungo è parsa un miraggio, un’utopia. Un “senso comune” difficile da poter credere sia condiviso da tutti, la spinta propulsiva per dare senso alla vita di una comunità, senza dover fare i conti con un agire fuori dalle regole che sono alla base di una convivenza civile e democratica La scena è un luogo astratto ma caratterizzato da oggetti di uso quotidiano quanto banali, una specie di antro abitato da uomini e donne che dividono lo spazio con detersivi, taniche di plastica, bidoni. Un muro artificiale che divide da quello che c’è fuori e non è certo un Eden. Stefano Tè firma la regia ed è uno degli interpreti sulla scena.
Un’umanità che fa i conti tutti i giorni con abitudini e tradizioni tipicamente napoletane, vissute nell’eccesso. Un senso di claustrofobia domina la scena dove i movimenti, i dialoghi, le azioni sembrano enfatizzate per una sorta di tensione emotiva che non trova valvola di sfogo. La musica eseguita dal vivo dove i decibel al massimo creano un frastuono che si va a sommare alla voce umana dolente e sofferente. La regia di Stefano Té cerca di far esplodere le tante contraddizioni esistenziali che si incrociano e sono il derivato di una realtà da cronaca quotidiana che si può leggere tutti i giorni nelle pagine della “nera”. Storie di tre persone costrette a convivere senza un vero vivere tra di loro. Non c’è dialogo tra di loro, l’incomunicabilità viene evidenziata da gesta e azioni anche paradossali. Si assiste ad un tentativo di analizzare in chiave sociologica il comportamento di chi non ha per scelta o costrizione, la possibilità di riscattarsi da una condizione di deprivazione ed emarginazione. Una reiterazione di azioni volutamente ripetute all’eccesso come se fossero meccanismi di un agire nevrotico ossessivo, parossistiche per dare la sensazione di un mal di vivere dove è impossibile sottrarsi.
Un andirivieni caotico dove sul sottofondo si sente il rumoreggiare di una radio che trasmette la voce di ascoltatori al telefono in dialetto napoletano. Una donna (Francesca Figini) che rappresenta la condizione femminile più sottomessa e al servizio dell’uomo che la considera nulla di più che una sua proprietà. Un giovane (Antonio Santangelo) tossicodipendente “parafrasa” la celebre scena della preparazione del caffè di eduardiana memoria (tratta dalla commedia “Questi Fantasmi”) quando invece si tratta di eroina. La droga chiama criminalità a cui lui non può sottrarsi. Una pistola e un casco da moto sono gli strumenti per imporsi con violenza usata ma anche ritorta verso se stesso. Triste destino.
Il suono ritmato e accelerato di Igino Luigi Caselgrandi (autore delle musiche eseguite dal vivo composte insieme a Matteo Valenzi) è il collante che amalgama uno spaccato di ordinaria follia quotidiana. Il risultato complessivo da l’impressione di un lavoro ancora non definito capace di suggestionare per certi versi, senza però raggiungere una profondità drammaturgica anche scenica. L’azione stenta a tratto nel trovare uno scorrere organico, forse per un eccesso di idee, come se fosse semplice raccontare una società così fortemente in crisi di valori, senso etico e morale, qual’è almeno una parte della società napoletana composta da illegalità, criminalità, emarginazione, disadattamento sociale più in generale.
Cosa ci vuole raccontare “Senso Comune”, al di là di una rappresentazione anche folkloristica, quando messi da parte alcuni stereotipi, il messaggio più incisivo e urgente è quello di offrire la possibilità di porsi delle domande a cui, lo ripetiamo convinti, il teatro è chiamato a rispondere.
Regia Stefano Tè
Drammaturgia Giulio Costa
Con Igino L. Caselgrandi, Francesca Figini, Antonio Santangelo, Stefano Tè
Musiche Matteo Valenzi, Igino L. Caselgrandi
Voce fuori campo Ernesto Mahieu
Testimonianze ricerca azioni V edizione
Teatro Akropolis
Visti a Genova l’11 e 12 aprile 2014
(pubblicato anche su www.laspeziaoggi.it)