PONTEDERA – Se tutto si disfa, si sfa, si scioglie, si squaglia, si distrugge, l’unica salvezza sono le ali, le altalene per prendere il vento in faccia, farsi Icaro sfidando il Sole, volteggiare, issarsi, librarsi cercando quell’ossigeno che la Terra, sembra, non contenga più. La suggestione, che ha in sé “Era” nella doppia valenza “epoca storica” ed il fiume della città della Piaggio, ma anche del teatro che da quarant’anni fanno Roberto Bacci e Luca Dini, è quella che è partita con il movimento “Scendere da cavallo”, è poi proseguita con “Salire a cavallo” ed adesso vede questa nascita, questo fiorire di nove compagnie attorno al tema di una fine non pessimistica, non caustica, non tragica, “L’Era delle cadute”.
Un tema comune, proposto da Bacci, i gruppi liberi di portare il proprio lavoro ed idee ma anche di confrontarsi, entrare in simbiosi, unirsi e scambiarsi, alimentarsi dagli altri soggetti per creazioni miste. L’operazione ne esce tutto sommato in piedi ed a testa alta con un’armonia di fondo, e senza quegli scarti pericolosi tra un passaggio e l’altro, un’alchimia tra le varie posizioni con quel fil rouge-sapore e retrogusto da retrobottega aperto e fruibile, teatro sfondato e spalancato nella sua materialità ed artigianalità e, contrappasso, quel senso sottile di etereo e paradisiaco, fumoso, intangibile, circense e felliniano, trasognante, impalpabile.
E’ un mix tra la vista e la schiuma-patina che ne emerge, tra l’azione, da prova aperta sempre in movimento, e quello stato astratto, leggero, lontano dal pantano delle cose reali. Qui sta il teatro, in perenne caduta, in perenne salvezza, che ogni passo potrebbe essere l’ultimo prima del tracollo, che ogni passo potrebbe essere l’ultimo prima di spiccare il salto, del decollo. Tra dannati e santi. La nostra è “L’Era delle cadute” ed il teatro, ed i teatranti, sono i suoi Don Chisciotte sui volti dei quali è più facile e più semplice da una parte infierire e dall’altra vedere che i segni indelebili non li abbattono ma li fortificano, abituati al precariato, alla debolezza, la loro resistenza è donare parole e bellezza, magia anche a chi non crede nella loro funzione sociale, intima e civile. L’immagine (disegnata da Cristina Gandumi) è un asino, o meglio un corpo di uomo con faccia d’asino da Paese dei Balocchi, che, come l’uomo che al circo si tuffa da altezze improbabili dentro una bacinella-tazza di mare in tempesta abbiatesca, si lancia a capofitto verso il suo secchio per mangiare, per distruggersi al suolo, che poi, in questo caso, sono sinonimi.
Lo Sicco/Civilleri, così come Loris Seghizzi di Scenica Frammenti e il Teatro dei Venti di Stefano Tè hanno tessuto le fila e sono stati i gruppi super partes in questa grande piramide gerarchica che da Bacci discende ai tre gruppi appena nominati fino alla base delle nove formazioni. I numeri, come le parole, sono importanti; la cabala non sono solo segni tracciati tra la sabbia e il cielo.
Un rumore di carrucole che pare portarci dentro le prime arcaiche pellicole dei fratelli Lumiere, un incedere per macchie, stantuffi e sifoni, pistoni ad incastonare una piccola rivoluzione industriale e fili e cavi e teli tirati, trapezisti. Macchine da cucire impegnate in battaglie tra ago e tessuto a dirigere e direzionare mani esperte e zavorre e tute blu vetero-operaio, pesi e contrappunti a scorrere faticosamente arrugginiti e vele d’Odissea da issare verso un mare certamente burrascoso ma da affrontare a viso aperto, con il vento in poppa e la faccia bruciata dal sole sugli zigomi.
I trampoli del Teatro dei Venti, con i loro costumi tra Avatar e Mad Max, alati, colorati, militareschi, irrompono in un altro tempo geologico tra il primitivo ed il futurista (in qualche modo ci sovviene il loro “Draaago”), un comandante da Titanic (Dimitri Galli Rohl) e le Torri Gemelle che ci ricordano le parole postmoderne del compositore Stockhausen riguardo l’11 settembre: “La più grande opera d’arte possibile nell’intero cosmo”. “L’importante non è la caduta ma l’atterraggio” (Matieu Kassovitz, “L’odio”).
Il monologo di Simone Perinelli (Le Vie del Fool), ancor più carmelobeniano, che ha nelle corde sia un Ulisse malfermo che un Pinocchio incerto e che qui li miscela con pulizia, fantasia e puntiglio, ha in sé l’infinito del vuoto, la cosmesi dell’impatto, la fobia dell’assenza, la mancanza, la paura dell’altrove, sempre immaginifico e terreno, sempre ad passo dall’afferrarlo e sempre un momento più avanti. “L’uomo sogna di volare e scrive sui muri noi siamo tutti uguali ma prega nel buio: la sorte del più debole non tocchi mai a me” (Negrita). Tra palato e pupille le prove di volo di Leonardo, la sospensione, il fluttuare, persino lo stallo diventa fervido propulsore.
Un appendersi è il confronto di Macelleria Ettore in quella pesantezza che non permette di staccarsi dal suolo e di essere finalmente se stessi. Sgomma una donna vitruviana dentro un hula hop gigante a cerchi concentrici creando vortici ipnotici e da trance, Biancofango innesta una parodia-metafora da panchina calciofila (dopotutto siamo in tempi di Mondiali) con Andrea Trapani eccitato e sudato, surriscaldato ed acceso da “My way”: “Certe partite non finiscono mai”. La miglior caduta è la scivolata, paralleli al suolo, sentendone la morbidezza e le asperità, la ruvidità, il contatto come un abbraccio, una carezza. Ma “si cade per tante ragioni: si cade perché qualcuno ci rialzi”. Ecco il cadere, morire, declinazione amletica d’importazione shakespeariana.
Carrozzeria Orfeo utilizza l’escamotage di accendini che si appicciano e spengono in coreografie luminose, simile al gioco di cucchiaini e tazzine messo in pratica nel loro ultimo “Thanks for vaselina”. Esperimento riuscito tra gang e scommesse da strada, bande, scontri tra galli, capoeira e hip hop per una caduta degli Dei spremuti come carne da macello. L’omino di stagno del Teatro delle Bambole si squaglia in movimenti epilettici al suolo, contorcendosi in tilt, Ossadiseppia, viscerali e carnali, solidi e materici, si concentra sulla nascita come caduta dal ventre, espulsione in un mondo di sofferenza, suore-Pierrot beckettiane con davanti una trincea-cascata di cordoni ombelicali, pronti a dividere oppure imeni da sf(r)ondare per entrare in una nuova dimensione.
Essere degli equilibristi, questo il messaggio. Il finale, che troppo vuole spiegare, prima con una bandiera italiana consolatoria, il tessuto che fin dall’inizio stavano cucendo, poi con il fondale aperto in stile Castellucci , proponendo un’Araba Fenice, che risorgerà dalle proprie ceneri (il teatro? Pontedera città? Pontedera Teatro dopo quaranta anni di attività?), stagliata sulle sagome della cittadina. Quaranta persone coinvolte, una per ogni anno del gruppo che si è fatto strada partendo dal piccolo Teatro di via Manzoni fino a questo mausoleo. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.
Visto al Teatro Era di Pontedera il 13 giugno 2014