BOLZANO – C’è una frase, la più famosa contenuta nel “A porte chiuse”, di Jean Paul Sartre che dice: “L’enfer, c’est les autres”, l’inferno sono gli altri, rivelatrice di tutto il dramma capace di spiegare meglio di qualunque altro concetto o teoria, che l’essere umano esiste solo in relazione all’altro. Sono gli altri a darci la possibilità di esserlo, con i loro giudizi e le loro impressioni in grado di dirci come siamo. In assenza di tutto ciò viene meno la nostra presenza, la possibilità di sentirci in relazione con l’ambiente circostante, il mondo stesso. Una vera e propria “maledizione” esistenziale impossibile da evitare. Se poi accade che qualcuno venga chiuso dentro una stanza, condannato a viverci per tutto il resto della loro vita, tutto si complica, ed è quello che avviene ai tre protagonisti del dramma composto da Sartre. Sono le emozioni le loro uniche armi a disposizioni nel vivere un presente e cercare attraverso lo sguardo di crearsi una identità, annullando il passato. E lo specchio che viene utilizzato come metafora, spiega cosa accadrà quando verrà meno la possibilità di vedersi riflessi, privandoli per sempre della loro identità.
Dentro quella stanza è entrato il regista Antonio Viganò con la sua Compagnia Accademia della Diversità – Teatro della Ribalta, che ha preso ispirazione anche dalla drammaturgia dello scrittore, filosofo, critico, composta nel 1944, dove Sartre a sua volta prende spunto dai concetti filosofici di Heiddeger e Husserl. Questo preambolo ci permette di parlare di uno degli spettacoli più belli e commoventi visti in questa stagione, in particolare al Teatro Stabile di Bolzano, all’interno della rassegna “Altri Percorsi”, dove si percepisce la maturità artistica raggiunta dal regista nonché direttore artistico, capace di plasmare per la scena un immaginario poetico di grande fascino. “Il ballo, le voci delle alterità mute” è stato concepito, appunto, dentro una stanza claustrofobica e angosciante, segnata dall’entrata ed uscita con modalità ansiose e frenetiche, di uomini e donne in cerca di una improbabile e impossibile identità.
Il passaggio che li porta ad entrare e tentare di uscire (il mondo che sta fuori) è condizione transitoria, da uno stato di prigionia ad un tentativo di fuga, ripetuto all’infinito, come potrebbe essere un agito determinato da una coazione a ripetere, compulsivo e nevrotico. La leggerezza della mano registica di Viganò si fonda con la bellezza del supporto coreografico di Julie Anne Stanzak. Tutto si svolge con estrema fluidità ne “Il ballo”, là dove le emozioni sono guizzi repentini che attraversano la scena, determinati da un ritmo cadenzato reso tale dalla bravura di tutti i protagonisti, guidati da fili invisibili che richiedono un incessante lavoro di sincronia e movimentazione scenica. Elemento indispensabile per descrivere la narrazione drammaturgica, molto simile più ad una scrittura di scena, che ad un testo precostituito (se la percezione, provata all’atto della visione è verosimile), non ci si può che trovare assolutamente concordi. Dentro quella stanza, potente metafora della vita terrena che ci fa sentire impotenti di fronte a qualcosa di ineluttabile, agiscono dinamiche tese a ricercare una via d’uscita, ad un’alterità sospirata e mai realizzata.
Come un labirinto che riporta sempre al punto di partenza. La loro condizione iniziale di corpi indifesi, subisce una momentanea trasformazione, indossando abiti a loro assegnati, costumi per rivestire le loro anime precarie. Fragile illusione trasformatasi alla fine in di-sillusione di potersi affrancare dalla loro condizione di “prigionieri”. Ogni loro tentativo singolo di uscire da quel luogo (emblematico quanto realistico per la sua connotazione di schema sociale omologato senza possibilità di mutazione)non giunge mai ad una conclusione altra – se non per un lasso di tempo infinitesimale, nel ribaltamento dei ruoli (da vittima a giustiziere), dove tutto ritorna sempre alla condizione precedente. Non c’è un finale ne “Il ballo” e non potrebbe essere diversamente: sta anche in questo il successo meritato del lavoro di Viganò, rispettoso delle abilità dei suoi attori e attrici, liberi di esprimersi attraverso le proprie soggettività individuali. Un valore aggiunto prezioso ad uno spettacolo dove il contributo della scenografia, sobria quanto complementare al disegno registico drammaturgico, disegnata da Antonio Panzuto, le luci e i costumi Michelangelo Campanale, il coordinamento di Paola Guerra, diventano elementi costitutivi essenziali nell’economia generale di un lavoro corale, senza dimenticare di sottolineare la capacità di tradurre, con la dovuta umiltà di intenti quelle contraddizioni deflagranti di un secolo come è stato il Novecento, attraversato da inquietudini che autori come Pirandello, Sartre e Schulz (citati non a caso per via delle note di regia redatte da Antonio Viganò), hanno saputo ben descrivere nelle loro opere, nell’analizzare il dramma dell’essere/vivere nell’uomo moderno. Anche “Ballando” ….
IL BALLO
La voce delle alterità mute
regia Antonio Viganò
coreografia Julie Anne Stanzak
scena Antonio Panzuto
luci e costumi Michelangelo Campanale
con Michele Fiocchi, Vasco Mirandola, Evi Unterthiner, Michael Untertrifaller, Rodri-go Scaggiante, Marika Johannes, Daniele Bonino, Matteo Celiento, Mirenia Lonardi, Rocco Ventura, Jeson DeMajo
Applausi! Tanti, tanti applausi!
Pubblicato da Teatro la Ribalta – Kunst der Vielfalt su Giovedì 16 febbraio 2017
ACCADEMIA ARTE DELLA DIVERSITÀ – TEATRO LA RIBALTA
con la collaborazione di Lebenshilfe – Bolzano – Residenze artistiche “Olinda “ – Fe-stival “Da vicino nessuno è normale” Milano
Visto al Teatro Studio – Comunale di Bolzano TSB- Altri percorsi il 16 febbraio 2017