BUTI (Pisa) – Un giovanissimo regista italiano Gabriele Paoli, formatosi al DAMS di Bologna, che vive e lavora a Londra alle prese con una testualità L’Inferno dentro (tradotta dall’inglese) tutta di suo pugno a immaginare e dirigere anche via skype- e questo è un fatto degno di per sé di grande novità per il teatro di tradizione-sei donne sei attrici italiane di età diverse. Tutte accomunate in scena, dalla stessa tragedia psico-sociale: sono state internate in manicomio senza essere pazze ma “solo” violentate nel corpo e|o nella psiche da eventi procurati da altri, quasi sempre maschi. Come maschio è lo psichiatra che in un Istituto di cura nel nord dell’Inghilterra le manipola, finge d’ascoltarle, finge di portare loro aiuto per garantire solamente la sua propria sicumera, il proprio status, la propria cerimonia del the delle cinque (ma una voce femminile guasta la follia- che, denuncia, è tutta del medico: è quella di una giornalista a sconfessarlo attraverso la voce di Giovanna Daddi seduta fra il pubblico che con risata sarcastica accende i motori del dramma che andrà a incominciare.
Poi inizia la serialità delle storie cliniche. Sei sedie, sei donne sedute, scolpite in mortificanti grembiuli incolori, addosso evidenti lividi, forse anche auto procurati. Una sirena che sembra un allarme di guerra scandisce i tempi di entrata ed uscita dall’ambulatorio psichiatrico. La gestualità ossessiva delle internate, che si sfregano incessantemente mani gambe e ventri, è punteggiata da suoni rumori micro deliri vocali – No! Fuoco! Silenzio! Dolore! per cui tutte assumono il ruolo di coro greco a centellinare a commento collettivo la narrazione delle altre, ciascuna in coda, ciascuna in attesa di raccontare o meglio ripetere la propria tragedia che ha nomi e cognomi accanto e sopra il lettino del carceriere-Dottore. Sono storie circostanziate che se ci fosse scappato il morto sarebbero finite alla tragicomica farsa di trasmissione Tv italiana di prima fascia pre TG. Nel frattempo la mente di chi scrive, corre a ricordare quello straordinario personaggio femminile di Stella, narrato sapientemente nel romanzo Follia di MacGrath.
E invece le sei donne sono là a raccontare e raccontarsi una dopo l’altra, in successione le vicende della propria via crucis molto terrena perché tutto il registro femminile è spostato sul tragico. In scena sono sedute come se fossero in sala d’aspetto in attesa di ripetere il proprio segreto dolore che è storia clinica da camice bianco ma è soprattutto memoria pesante di abusi quali l’aborto, la violenza in famiglia, la perdita, l’acquistare compulsivo, il tradimento coniugale e la prostituzione. Storie di ordinaria follia verrebbe da commentare, ma non certo da circoscrivere socialmente dentro un sadico rituale medico dove l’auto-narrazione è affidata e circoscritta alle gelide mura di una istituzione totale quale un manicomio.
Quello di Gabriele Paoli è un testo di denuncia sociale tutto virato nella sua dimensione registica sul lato del tragico. E’molto interessante il trattamento del testo sul corpo delle brave attrici che raggiungono un bel risultato corale e davvero è impressionante il fatto che sia riuscito a dirigerle così puntualmente attraverso il virtuale, almeno in una prima fase di lavoro, per poi ricompattarle de visu sul palco del Teatro Francesco di Bartolo a Buti, cittadina ai piedi del Monte Serra – i monti Pisani cari a Dante, dove fra l’altro Gabriele è nato, per poi approdare ad altre nebbie ma con sicuri meriti di prova d’artista. Con un cast di attrici efficaci e un Tazio Torrini psichiatra proprio algido come la perfida Albione.
Scritto e diretto da Gabriele Paoli
Con Gilda Bani, Monica Bauco, Rosanna Gentili, Cristina Lazzari, Debora Mattiello, Giusi Merli, Tazio Torrini e con la partecipazione di Giovanna Daddi
Luci Valeria Foti
Foto Alessio Mazzantini e Filippo Parducci
Visto al Teatro Francesco di Bartolo (Buti- Pisa), l’8 maggio 2015