Ci descrive come si è sviluppato in questi dieci anni?
«Stracci della Memoria è nato nel 2006 come spunto di riflessione artistica attorno al tema Updating Modernism, lanciato dal Bhune Bauhaus di Dessau in Germania, in occasione di una call internazionale per performer alla quale abbiamo preso parte. Da subito l’attenzione è stata rivolta sulle nuove modalità di espressione artistica e di comunicazione teatrale, generate dall’interazione con altre discipline come l’antropologia culturale, le arti visive, i nuovi media, la danza, la musica e ogni altra forma ed espressione artistica di cui l’uomo possieda memoria. Il progetto si è articolato in tre fasi di ricerca performativa, che sono state espresse da altrettanti video artistici e azioni performative, quali La memoria del corpo, La memoria della carne, e Il canto dell’assenza. Marcel Proust scriveva ne La Recherche: “Il semble qu’il y ait une mémoire involontaire des membres, pâle et stérile imitation de l’autre […]. Les jambes, les bras sont pleins de souvenirs engourdis” (Sembra che vi sia, pallida e sterile, una memoria involontaria delle membra […]. Le gambe, le braccia, sono piene di ricordi in letargo). Questo concetto ha contraddistinto la prima fase di ricerca del nostro progetto, partita da una riflessione attorno agli impulsi, che generano un’azione performativa, e determinata dai ricordi custoditi nel corpo del performer e nella sua memoria individuale. In questa indagine il ricordo trova la sua giustificazione d’essere perché è presente una coscienza in grado di evocarlo e, di conseguenza, di renderlo nuovamente attuale attraverso l’atto performativo. Questa fase rappresenta simbolicamente il presente, la vita, ed è associata al colore bianco. La seconda nasce da due versi di John Milton nel Paradise Lost: “Which way I flie is Hell; my self am Hell […]/ What matter where, if I be still the same” (Perché dovunque fuggo è sempre inferno, sono io l’inferno […]/Che cosa importa il luogo se rimango me stesso?”). Dalla memoria individuale a quella collettiva il passo è breve. Tutto ciò che era soggettivo diventa oggettivo. L’esplorazione dei ricordi personali ci ha condotti a interrogarci sulla nostra identità e su quanto l’ha determinata.
Una memoria sotterranea che, alla luce del giorno, si cela nell’epidermide, il confine tra ciò che è contenuto in noi e il mondo esterno, tra presente e passato. Una memoria biologica, di specie. Questa fase rappresenta simbolicamente il passato, il pathos, ed è associata al colore rosso. La terza fase ha come momento ispiratore un verso da “Milton a Poem”, di William Blake: “To cast off the rotten rags of Memory by Inspiration” (Scartare i putridi stracci della memoria con l’ispirazione, t.d.g.). Questo canto è l’ultimo dei nostri nuclei d’indagine ed è quello che ci ha permesso di aprire il progetto a performer e artisti internazionali e indagare la memoria dell’umanità, intesa come bagaglio culturale e artistico collettivo. Il contesto sociale in cui siamo cresciuti, le abitudini acquisite e, in modo particolare, le nostre tradizioni artistiche e performative, sono state il punto di partenza per generare un confronto tra passato e presente; avviare un processo creativo nel performer in grado di attualizzare il proprio bagaglio culturale. Grazie al confronto con le tradizioni performative, provenienti da altre culture, abbiamo cercato di ricostruire un linguaggio unico, espressione di una memoria globale. Questa fase è associata con il colore nero, in quanto assenza, e rappresenta per noi il futuro come concetto temporale, un qualcosa che deve ancora avvenire ma anche l’anima del progetto stesso, perché ha aperto la nostra ricerca verso una dimensione antropologica e una direzione internazionale».
Cosa sono le sessioni internazionali?
« Sono percorsi intensivi di alta formazione e ricerca rivolti ad attori, performer e artisti provenienti da tutto il mondo, diretti da noi e ospitati in teatri, centri di ricerca, università e festival. A oggi, le sessioni sono state condotte in Italia, Messico, Corea del Sud, Armenia e India e hanno visto il coinvolgimento di artisti provenienti da Italia, Spagna, Polonia, Inghilterra, Armenia, Usa, India, Pakistan, Corea del Sud, Messico, Colombia e Brasile».
Vi siete rapportati con artisti di diversa nazionalità, formazione e cultura. Oltre alle difficoltà linguistiche, quali altre problematiche avete dovuto superare?
«Non abbiamo mai avuto grosse difficoltà a lavorare con artisti di diversa nazionalità, nemmeno dal punto di vista linguistico, poiché il nostro lavoro è basato principalmente sul linguaggio del corpo. Uno tra gli obiettivi principali del progetto è stato proprio quello di creare un nuovo modo di comunicare, generato dallo sviluppo di azioni fisiche e vocali pure, basate sull’essenzialità del linguaggio utilizzato; passi ritmici, canti, azioni spiraliformi, testi poetici scomposti in parole chiave, suoni, immagini. Il training ritmico, fisico e vocale, appositamente creato per il progetto, è stato uno strumento indispensabile per tale ricerca e ci ha permesso di introdurre performer molto diversi tra loro in un processo collettivo, finalizzato alla condivisione delle tradizioni performative dei differenti Paesi e alla creazione di una nuova ritualità, un atto performativo che implicasse vari livelli di coinvolgimento. Al contrario, abbiamo incontrato maggiori difficoltà a livello organizzativo. Spesso i partecipanti alle sessioni hanno ideato tappe di lavoro nei loro Paesi e, in queste occasioni, tutti i limiti legati al linguaggio si sono fatti sentire. Comunicare a distanza, magari attraverso i social network con persone che parlano solo la propria lingua (come il coreano o l’armeno) è stato abbastanza complesso e ha generato diversi fraintendimenti. Per fortuna, nel lavoro pratico le incomprensioni si sono sempre risolte e anche le difficoltà incontrate nella comunicazione a distanza sono scomparse in fretta».
Stracci della Memoria è un progetto multidisciplinare, che si è svolto su più continenti. La commistione tra arti e l’elemento itinerante sembrano due caratteristiche connaturate alla vostra esistenza come Instabili Vaganti. In che modo queste caratteristiche arricchiscono il vostro lavoro?
«Abbiamo cercato di rendere in positivo un aspetto negativo dei nostri primi anni: la mancanza di stabilità. Questa visione ci ha aperto nuovi orizzonti e ci ha permesso di adattarci a contesti diversi, mettendoci a confronto con numerose culture dalle quali abbiamo potuto trarre spunti ma, soprattutto, esperienze di vita che ci hanno fatto crescere velocemente. Abbiamo vissuto e lavorato in ambienti diversissimi, dai villaggi coreani e indiani alle grandi metropoli, cercando di rendere il nostro linguaggio artistico comprensibile a livello universale, assorbendo tradizioni culturali e tecniche performative molto distanti tra loro. Tutto ciò ha arricchito il nostro lavoro sia dal punto di vista artistico che umano. Questo ci ha permesso di ampliare notevolmente le nostre vedute, sganciandoci dalla realtà culturale italiana, che troppo spesso scoraggia e intristisce con le sue dinamiche di potere e corruzione».