SANTARCANGELO – Palcoscenico di un festival internazionale del Teatro in piazza, Santarcangelo ospita da ben 44 anni uno degli appuntamenti più attesi della stagione estiva. La sua identità si è consolidata nel corso delle edizioni sempre tesa a far conoscere la ricerca artistica più avanzata, dando fiducia ai gruppi emergenti al fine di promuovere una cultura della visione che sia capace di avere un occhio di riguardo al contemporaneo, immerso in una società fluida e in continua evoluzione. Creare un contesto culturale dedicato al teatro in particolare è sempre un’impresa ardua; il rischio è quello di paracadutare eventi e artisti provenienti da altre realtà, senza poterle radicare stabilmente. La provvisorietà e la temporaneità può determinare la sensazione di non appartenenza per la comunità ospitante. Un rischio che questo Festival ha sempre cercato di evitare mostrando una forte propensione nel coinvolgere gli stessi abitanti della cittadina romagnola.
Come nelle edizioni precedenti la direzione artistica di Silvia Bottiroli e Rodolfo Sacchettini (che concludono il loro mandato triennale) hanno scelto dei progetti artistici finalizzati a lasciare un’impronta nelle identità di chi ci abita, come nel caso di Richard Maxwell / New York City Players –Ads con un progetto che aveva toccato, prima di approdare al festival S.12 diverse città del mondo, coinvolgendo gli abitanti del territorio – diversi per età, sesso, estrazione sociale – e permettere loro di dire pubblicamente ciò in cui più credevano. Senza finzione, senza filtri, i loro pensieri venivano ascoltati dal pubblico. Quest’anno con “Art you lost?”, un progetto che indaga sulla “perdita e sulla memoria, sullo smarrimento di una direzione e riscoperta di un orizzonte”, Lacasadargilla/Muta Imago/L. Brinchi, R. Zanardo (Santasangre) e Matteo Angius dell’Accademia degli Artefatti, hanno reso visibile l’esito della fase preparatoria svoltasi durante l’edizione di S. 13 (400 persone hanno partecipato al percorso individuale del “preparatorio”) in forma di una grande installazione interattiva.
Oggetti e segni grafici sulla carta dislocati nelle stanze e nel cortile della Scuola elementare Pascucci, a cui si poteva accedere attraverso un labirinto vegetale da assomigliare ad una foresta tropicale. Un percorso in cui i rimandi biografici visivi e testimoniati per iscritto offerti come prova tangibile del passaggio di uomini e donne, le cui tracce erano state consegnate l’anno prima. Non teatro ma frammenti di esistenze in relazione con l’ambiente e con il Festival stesso, depositario di saperi e vissuti. Frasi, pensieri, parole pensate per essere poi condivise, lette da chi avrebbe seguito un anno dopo un itinerario realizzato dal gruppo di artisti a cui la direzione ha affidato il progetto. Basato sul concetto di perdita che si era venuto a creare dalla mole di informazioni ereditate. Gli artisti coinvolti intervistati da Alex Giuzio per il Giornale del Festival si sono chiesti come “far si che l’arte torni ad appartenere alla collettività? C’è un rapporto circolare fra arte e realtà che va tematizzato: non soltanto l’arte riproduce la realtà, ma la realtà torna ad essere influenzata dall’arte”, e su questo hanno lavorato per dare visibilità concreta ad un lascito che di fatto identifica e caratterizza gli abitanti di Santarcangelo. Non veicolato o indotto ma assolutamente spontaneo per lasciare ai veri protagonisti la possibilità di esprimersi emotivamente senza nessun tipo di vincolo. Ognuno dei partecipanti spettatori non è identificabile e quindi anonimo. L’individuo come protagonista ma allo stesso tempo parte integrante di una collettività in cui riconoscersi.
La contabilità delle edizioni del Festival con il 2014 segna il numero 44, tanti sono gli anni in cui va in scena, definito “una comunità temporanea, un’abitazione temporanea della città”, dove la piazza centrale della città è stata pensata come un’agorà in cui accogliere non solo in cittadini ma anche gli artisti e gli spettatori, dandole una valore sociale più ampio. Spazio adibito anche a installazioni artistiche dove trovava posto anche una ciclofficina, curiosa iniziativa per offrire un laboratorio di ciclomeccanica dove apprendere le tecniche di riparazione. La bicicletta è un mezzo di trasporto che in un contesto come quello di un festival, dove gli spettacoli sono dislocati in più sedi, assume un ruolo decisivo ed ecologico. Le proposte artistiche non erano dettate da un pensiero unico, una sorta di linea guida che volesse identificare un tema specifico.
Scorrendo il programma è evidente che la direzione artistica volesse proporre più visioni, maggiore libertà espressiva nel proposito di favorire una più ampia discussione analitica. Rappresentazioni in grado di far discutere, riflettere e favorire giudizi anche contrastanti tra di loro. Il teatro deve assumersi la responsabilità di promuovere una dimensione politica e comunitaria della scena. Una dimensione capace di promuovere una coscienza collettiva a fronte di una deriva sociale, economica e culturale che attraversa la nostra stessa società. Da qui l’attesa per il debutto in prima europea della compagnia cilena La -Resentida con “La imaginación del futuro” definita una “rielaborazione sfacciata e impudente della storiografia su Salvador Allende e il colpo di Stato cileno basata sulla cruciale domanda: che cosa sarebbe successo se… “.
Un gruppo di giovani attori interpreta i ruoli di ministri decisi a salvare il governo senza però capire come farlo. L’interrogativo che si sono posti è :”Sarebbe stato possibile evitare diciassette anni di dittatura?”. Progetto ambizioso, nato come intento di reinterpretazione della storia politica del Cile sconvolta da anni di feroce dittatura.: quello di raccontare attraverso la finzione teatrale un periodo buio ed oppressivo di un paese sottoposto ad un regime che aveva soffocato ogni diritto democratico e tolta la libertà. La compagnia è stata fondata nel 2007 in Cile con lo scopo di fare del teatro uno strumento sociale per conservare l’identità culturale, attraversando le tante contraddizioni che contraddistinguono la nuova generazione, della quale fanno parte gli stessi artisti. Il nome di Re-sentida deriva da “resentir”, risentire, che spiegato come azione sta a significare un risentimento per qualcosa che ha fatto soffrire e ferire.
E la ferita vissuta in Cile l’11 settembre del 1973 quando il presidente Salvator Allende pronunciò il suo ultimo discorso pubblico e subito dopo si suicidò per non cadere nelle mani dei militari del dittatore Pinochet. Da qui nasce l’intento politico della compagnia, atto dovuto di una memoria collettiva. Tramandare attraverso l’arte scenica un periodo storico drammatico. Il regista Marco Layera intervistato da Rodolfo Sacchettini spiega che all’origine di mettere in scena “La imaginación del futuro” c’è in lui un sentimento di odio e amore provato per il suo paese, definendola una “contraddizione”, che trova senso se si pensa che il Cile è un paese dove non esiste una vera democrazia, come il regista chiama invece di “transizione democratica”. Lo spettacolo dai connotati pop (genere che in Italia ormai ha fatto il suo corso) si regge su un impianto volutamente dissacratorio, con l’intento di “mescolare Storia e attualità”, come un collage di azioni che si confondono tra di loro, azione politica, la messa in burla dello stesso Allende che viene anche criticato per alcune sue decisioni prese, e una società cilena odierna contaminata e corrotta dalla droga, dall’alcool e dal sesso.
Quello che accade in ogni democrazia tutto sommato. In una scena volutamente caotica accade di tutto, dalla propaganda, ai discorsi alla nazione, proclami, litigi e zuffe tra ministri. L’effetto è quello di saturare e di disorientare come se il risultato prodotto volesse descrivere ciò che era accaduto in Cile. Il teatro de La Re-sentida piace alle nuove generazioni, ai tanti giovani spettatori che lo hanno seguito e acclamato, e diviso, invece, un pubblico più adulto, meno propenso a lasciarsi trasportare dall’irruenza degli attori, sempre sopra le righe, come da indicazioni registiche che intendeva enfatizzare, provocare, spiazzare, con le tante scene anche grottesche o paradossali. Un pubblico giovane vede in questo genere di teatro la possibilità di sentirsi parte di quelle inquietudini esistenziali, sociali e culturali, come una sorta di specchio riflettente. Ma a questa identificazione deve seguire anche una possibilità di trovare delle risposte, di suggerire delle vie d’uscita. Quando il teatro fa discutere è sempre segno di vitalità dove tutti possano confrontarsi. La percezione provata è quella di un eccesso di segni, di simboli, di azioni sceniche convulse tali da determinare a tratti la fatica nel trovare un percorso lineare che porti alla fine.
Di altra natura è la narrazione di un artista che rappresenta per il teatro stesso uno dei suoi protagonisti assoluti, attore capace di incarnare come pochi l’essenza stessa dell’arte scenica, dove trasfigurare nei tanti personaggi interpretati, le caratteristiche dell’uomo, vizi e virtù, sicurezze e debolezze, rendendole universali. La sua vita è sempre stata all’insegna della vocazione per il teatro e non a caso il suo ultimo spettacolo si intitola “Vocazione”. Danio Manfredini si avventura nei meandri di un labirinto in cui si muove con la sua sempre eccelsa eleganza, fatta di gesti rarefatti, di movenze impalpabili, dando anima e corpo a personaggi eccentrici, spesso ai confini di una società che gli ha rifiutati, esistenze segnate da cicatrici invisibili. La fascinazione del suo essere in scena ha qualcosa di mistico, di carismatico, con pochi accessori riesce a restituire al teatro quella magia che gli appartiene. Artifici scenici elementari che solo lui sa usare con una tale maestria da suscitare in chi lo vede, un misto tra stupore e ammirazione. Frutto di anni di sacrifici dove l’uomo si è votato alla professione senza sconti, senza compromessi, studiando come può fare un uomo di cultura che desidera scavare nel profondo dell’animo umano. Oliviero Ponte di Pino lo definisce “monaco guerriero del teatro italiano”. Un attore in trincea a baluardo della difesa di un fare teatro secondo regole ferree.
Manfredini appare dimesso e malinconico, è l’attore che interpreta se stesso, un artista lontano dalle scene da tanti anni. Richiamato da un direttore di teatro per recitare Re Lear si ritrova solo sul palcoscenico dove rievoca il suo passato di solitudine, nascosto in una soffitta in casa della sorella in un anonimo paese della Germania, e obbligato a recitare il personaggio shakespeariano per trent’anni. Senza pubblico solo di fronte ad un’esistenza che per un attore è una condanna a vita. Recita Minetti da Thomas Bernhard, e basterebbe questo frammento di spettacolo per decretarne il successo. Danio Manfredini sembra volersi raccontare con questo suo percorso che apre al tema dell’attore di teatro e della sua vita. Lo fa per rivendicare con la sua onestà intellettuale che lo accompagna da sempre, il diritto di una centralità della figura stessa dell’artista nella sua “essenza umana scarna”. Il ruolo dell’attore è ancora lo strumento principale da non abdicare, senza nulla togliere alla tecnologia, all’evoluzione dei linguaggi performativi di un teatro di ricerca. Danio è l’attore per antonomasia.
La fatica di un lavoro di sollecitazioni continue, di immedesimazioni in ruoli l’uno differente dall’altro, dell’esaltazione sulla scena e la successiva demotivazione nel momento che tolta la maschera e il costume, l’uomo si ritrova solo con se stesso. Il Gabbiano di Cechov e “Un anno con 13 lune” di Fassbinder (quest’ultimo ripreso dal suo Tre studi per un crocefisso) sono tra le citazioni scelte per raccontare l’attore e le sue mille facce: essere debole e fragile ma quando appare sotto le luci dei riflettori, si trasforma e stupisce. Lo accompagna Vincenzo Del Prete suo storico compagno di viaggio, altrettanto bravo a interpretare ruoli da comprimario. Vocazione pare un lavoro dove è ancora possibile modificare l’assetto drammaturgico per renderlo più compatto e incisivo. Vi sono momenti in cui la presenza di Manfredini si dilata e tende a sfilacciarsi. Un semplice lavoro di cesello che nelle prossime repliche potrà offrire una prova ancor più sublime del suo talento immergendosi con l’umiltà, la pazienza, e il coraggio che possiede ed esercita con una sapienza di rara perfezione.
Dal teatro alla danza, commistione di generi e linguaggi dove il genere di teatro-danza assume un ruolo sempre più sostanziale sulla scena del contemporaneo, dimostrando spesso un rigore compositivo e artistico pari se non superiore a quello teatrale, a volte realizzato con più indeterminatezza e superficialità. Nell’ambito della Piattaforma della Danza Balinese, Fabrizio Favale e il gruppo Le Supplici, presentava Orbita, dedicato a Italo Calvino. Quattro danzatori sulla scena a cui il coreografo ha affidato il compito di disegnare geometrie fisiche di una perfezione unica. Corpi vestiti in k-way scuro con il cappuccio alzato, anonimi si muovono ruotando a braccia aperte, in assonanza con le pale di ventilatori collocati di fronte al muro, la cui aria non arriva in scena ma si va a rifrangere sulla parete. I corpi pensati come linee convergenti e divergenti, allineate o in progressivo allontanamento. La plasticità espressiva di Francesco Leone, Giuseppe Paolicelli, Daniele Salvitto e Davide Valrosso, seguiva le indicazioni di una coreografia dinamica, in perenne evoluzione, figurata da creare un incrocio di traiettorie che si irradiavano fino a rimbalzare contro un muro invisibile per poi tornare al centro della scena. La ripetizione del gesto come scelta rituale quasi fosse un’invocazione ad una divinità superiore, fino a quando il nudo in penombra dei quattro danzatori ci dice che l’essere umano è spoglio di ogni orpello di cui disfarsi. Un’esibizione che deriva dallo studio della danza classica ma rivista poi in chiave moderna, dove tecnica e creatività si coniugano in un saggio di bravura collettiva.
Di seguito Cristina Rizzo presentava Boleroeffect, una coreografia per due danzatrici (con lei Annamaria Ajmone) e il supporto sonoro di Simone Bertuzzi. Una danza ispirata ad uno dei brani più celebri della storia musicale universale, composto da Maurice Ravel. Tutto verte su una singola melodia divisa su due frasi e ripetuta nove volte. Da qui la coreografa ha inteso creare una sorta di gestualità che arrivasse all’eccesso, al movimento ossessivo e frenetico, come il risultato di uno stato di trance fisico ed emotivo. Le due danzatrici seguono lo stesso andamento ritmico seguendo le musicalità di un suono border – crossing, come una sorta di dance hall post -globale. L’effetto è quello di un ritmo portato all’esasperazione con l’intento prossimo futuro di coinvolgere il pubblico fino a farlo partecipare ad una danza collettiva.
Ora non resta che attendere quale sarà la decisione presa per il 2015 quando dovrà essere nominata una nuova direzione artistica che guidi le prossimi edizioni.
Visti al Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo di Romagna l’11 e il 12 luglio 2014