RUMOR(S)CENA – ARMANDO PUNZO – VOLTERRA – Quando nel 2016, durante la scena finale di Dopo la Tempesta, Lui e Il Bambino si sono presi per mano e hanno voltato le spalle al mondo di Shakespeare, a quell’affresco di intrighi e trame che volevano tradire e disconoscere come fondamento della loro esistenza, gli spettatori non sono rimasti da soli a contemplare le macerie.
Abbiamo immaginato che li abbiano seguiti in quel viaggio di allontanamento da sé, che abbiano attraversato insieme la prima valle, quella della ricerca, e che abbiano incontrato anche loro Funes, l’Uomo grigio, l’Antiquario e tutte le altre meravigliose figure che popolavano il lago di Beatitudo.
Dove vanno ora Lui e Il Bambino?
La domanda che ci ha tormentato per due anni, prima dell’approdo a Borges, ritorna ora più faticosa che mai. Perché il «Lascia tutto e seguimi» cristiano, che ritorna in altre varianti in molte culture diverse, rimane la sfida più incredibile mai lanciata a un uomo, ancora insuperata. È davvero difficile chiedere di più.
Nel Verbo degli uccelli del poeta persiano Farid ad-Din Attar, uno di quei testi ricorrenti che tante volte ho pensato di mettere in scena con la compagnia, e che invece è rimasto in noi come traccia sotterranea, c’è un momento che ho sempre trovato illuminante, quello in cui gli uccelli, invitati dall’Upupa a un viaggio duro e rischioso alla ricerca del Simurgh, accampano pretesti per restare dove sono: «Perché andare via? Chi sta meglio di me, nutrito e tranquillo, sulla spalla del re?».
È fin troppo facile identificarsi in quella riluttanza. Lavorando ogni giorno, per esempio, scopro che il primo a voler rifare Macbeth sono io. Il primo che vorrebbe vestire i panni di Achille e combattere la battaglia dei tre giorni sono io. Mi riconosco nelle fonti, ne sono tentato, mi solleticano l’immaginazione.
E poi però qualcosa in me prende un’altra direzione, e penso che se fossi Achille le armi che consegnano a lui io non le vorrei, ne vorrei delle altre, altri poteri, magari la capacità di parlare con le pietre e le piante.
Se le sue armi fossero la lingua degli alberi che non conosco e le grammatiche ignote di questa natura e di tutti i cosmi e universi visibili e invisibili, allora sì che le vorrei.
Vorrei essere inghiottito dal mare, dalle rocce, dall’acqua e dall’aria. Essere tutt’uno con questo mondo che assiste immoto, senza dare un segno, senza un consiglio da dispensare, che non si cura della nostra esistenza, non prende parte, non ci pensa.
Eppure, scopro ogni volta quanto è difficile staccarsi da sé, perché dentro ci portiamo appiccicati i legami, i ricordi, le idee, la storia, le scelte, le persone, un’identità che si ripresenta di continuo.
Appena provi ad allontanarti la realtà mostra il volto protettivo e soffocante di una madre che non ti lascia andare.
Si dice che per la sua Divina Commedia Dante abbia provato a partire fin da subito dal Paradiso, perché di quello aveva bisogno, ma che non ci sia riuscito e che quindi sia dovuto tornare indietro e cominciare dall’Inferno. Nel Verbo degli uccelli Cristo viene fermato al quarto cielo e non potrà ascendere al settimo, a causa del fatto che ha portato con sé uno spillo. Perfino il figlio di Dio non riesce a separarsi da tutto.
Quanto più semplice sarebbe, in effetti, girarsi indietro e lasciarsi andare a qualcosa che conosciamo e che ci accoglie?
Invece la saga continua, contro ogni stanchezza e ogni paura, con la consapevolezza del fatto che la ricerca di un luogo in cui essere altro da ciò che siamo non si esaurisce, e ogni volta, dopo uno slancio straordinario, ci ritroviamo a fare i conti con quanto di noi rimane in noi, imbrigliati negli stessi pretesti accampati dagli uccelli di Attar.
In questo momento non abbiamo alcuna idea del luogo verso cui stiamo viaggiando, del popolo che incontreremo nella prossima valle.
Una sola cosa è certa, che l’approdo che cerchiamo non è né in cielo né in terra, né in un dio né in un altrove esotico, ma tutto in noi, solo in noi, nella nostra natura, anzi nelle nostre infinite naturae.
C’è un mondo intero di qualità che cercano di emergere dal pozzo in cui le abbiamo relegate: Armonia, Letizia, Stupore, Innocenza.
Bisogna avere fede nell’impossibile, perché è già successo altre volte che si sia realizzato, e perché in ogni caso non possiamo continuare a vivere per sempre così, cercando solo di tenerci in piedi, ora difendendoci e ora attaccando.
La nostra civiltà non è un approdo, è una fase di passaggio.
L’evoluzione non si è arrestata.
Ogni generazione ha una nuova sfida all’orizzonte, a noi spetta il compito di superare l’Homo Sapiens per andare incontro all’Homo Felix.
Armando Punzo