RUMOR(S)CENA – LA SPEZIA – Stuzzicata da Paolo Mottura e dalle sue corrusche creazioni, ammirate presso il Centro d’Arte Moderna e Contemporanea della Spezia lo scorso aprile, la mente dello scrivente è ritornata ad una pagina curiosa del cinema francese: Subway (’85), seconda prova di regia dell’allora ventottenne Luc Besson la quale racchiude due motivi, benché inscenati con altre forme, personalissime e imprevedibili, ricorrenti nell’artista pinerolese, intimamente connessi l’un l’altro; nel “Pinocchio”, certo, ma soprattutto nelle tavole concepite per il noir “Redemption”, terza sua collaborazione con Christophe Bec, e il pungente “Per me si va nella grotta oscura”: da un lato la moderna riscrittura del motivo arcaico della “catabasi” ossia la discesa di un “vivente” nell’Averno (nel caso in esame, discesa in un luogo interdetto sottilmente intesa come esplorazione delle periferie del “sé”), dall’altro il Viandante, lo Straniero dal Passato Tormentato che approda a lidi remoti, oscillanti fra Luce e Tenebra, Reale e Immaginario, Sogno ed Incubo.
La storia di Subway, semplicissima eppure difficile da riassumere, si svolge in una chiassosa Parigi tinta al neon, pedinando da vicino Freddy (Christopher Lambert, Highlander consacrerà la sua fama l’anno seguente), biondo scassinatore di mezza tacca in fuga per aver sottratto “carte scottanti” ad un magnate industriale dopo essere stato invitato ad un suo ricevimento da Hélène (un’insolita Isabelle Adjani, fragile discola dalla chioma frullata), splendida e ben più giovane moglie del padrone di casa. Rifugiatosi nei cunicoli metropolitani, Freddy telefona alla donna, chiedendole un’ingente somma per riavere indietro i documenti rubati. Revolver in borsa, Hélène accetta, addentrandosi pure lei, con notevole coraggio, nel segreto dedalo della capitale francese, facendo a mano a mano la conoscenza delle “macchiette” più folli: un tartagliante borseggiatore (Jean-Hugues Anglade) su pattini a rotelle, un culturista africano (Christian Gomba) dal nomignolo che è tutto una canzone (‘Rambo’), un fioraio enigmatico e dai modi affettati (Richard Bohringer), un complesso punk capitanato da un taciturno, formidabile batterista (Jean Reno)…
L’espressione “senso di straniamento e meraviglia” è quella che meglio compendia le sensazioni che lo spettatore prova durante la visione di Subway; una fiaba, come definirono alcuni recensori, quasi di “fantascienza urbana” dove i caratteri tipici del polar transalpino deflagrano ora nella commedia ora addirittura nel musical. Tuttavia, sotto la cangiante pelle post-moderna delle pareti del sottopassaggio, le sue luci fluorescenti, l’acciaio che le riflette e la rintronante “melodia” dei binari pulsa ancora una volta il “sangue” de Les Mystères de Paris di Eugène Sue, della fiaba della Bella e la Bestia, della grande tradizione caricaturale patria (es. Honoré Daumier), delle passioni che sfidano il Destino proprie dei capolavori del Realismo Poetico in celluloide (non a caso le scenografie sono firmate dal grande Alexandre Trauner, di lui si ricordi almeno Mentre Parigi dorme di Carné) e, in un’ottica più ampia, l’universo immaginativo, ancora una volta francese nel profondo, dei fumetti; universo conosciuto e avidamente amato da Luc Besson fin da ragazzo (in futuro porterà, infatti, sul grande schermo le avventure di Adèle Blanc-Sec di Jacques Tardi e della coppia di astronauti Valérian e Laureline di Christin e Mézières) proprio come i coetanei italiani del regista si persero, monellacci, fra le irriverenti, colorate pagine della rivista Frigidaire intelligentemente rievocata da Morando Morandini come termine di paragone. Un breve viaggio, strampalato ma a suo modo sincero, toccante di due “innocenti” alla scoperta di un mondo nel quale verrebbe da chiedersi chi siano i veri “mostri”.
…Non è vero che non voglion dire,
vogliono dire qualcosa.
Voglion dire…
come quando uno si mette a cantare
senza saper le parole.
(A. Palazzeschi)