Chi fa teatro, Contributi critici, Interviste, Teatro — 19/11/2015 at 18:33

Teatro Sotterraneo: Brecht in salsa British

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PISTOIA –  In una tiepida giornata novembrina, incontriamo Daniele Villa e Sara Bonaventura, due dei  fondatori del gruppo del Teatro Sotterraneo, di cui fa parte anche Claudio Cirri. Una Compagnia che in questi anni ha elaborato un linguaggio originale, a metà strada tra lo straniamento del maestro tedesco, e lo humour nero caro alla tradizione inglese. Umorismo e capacità di distanziare lo spettatore dalla materia trattata che si sposa con la “scelta identitaria dell’intera Compagnia”. I loro spettacoli sono unici anche nel momento dell’elaborazione. Diversamente da quanto avviene nel sistema produttivo italiano, (parte da un testo scritto a tavolino, messo in scena in un secondo momento), il Teatro Sotterraneo costruisce, di base, “azioni che includono la parola”. Mentre Daniele Villa interviene solo in un secondo momento: “Scegliendo nel magma delle parole scaturite dall’improvvisazione quelle che comporranno il testo”. Un metodo originale che li ha portati non solo a sviluppare un proprio stile ma anche un approccio diverso con questo lavoro che, partendo da un processo creativo condiviso, conduce a spettacoli “rigidamente strutturati e precisi”. Piccoli diamanti multisfaccettati.

 

 

Daniele Villa, Sara Bonaventura, Claudio Cirri - Teatro Sotterraneo , crediti di Ilaria Scarpa
Daniele Villa, Sara Bonaventura, Claudio Cirri – Teatro Sotterraneo , crediti di Ilaria Scarpa

Spesso i vostri lavori sono firmati collettivamente sia per quanto riguarda la  drammaturgia che la regia. Non è un rischio quando tutti concorrono a ricoprire i due ruoli?

Sara Bonaventura «Il processo creativo, dalla ricerca all’ideazione delle scene fino al montaggio, è collettivo, ma quando dobbiamo elaborare le frasi precise, Daniele – che ha fatto un percorso di studi specifico – interviene, scegliendo nel magma delle parole scaturite dall’improvvisazione quelle che comporranno il testo. Ed è bene sottolineare che, nonostante si lavori molto, all’inizio, con il metodo dell’improvvisazione, alla fine ogni spettacolo è rigidamente strutturato e preciso».

Come nasce l’idea di un progetto teatrale a puntate, qual’è Il giro del mondo in 80 giorni? E come avete risolto due criticità: la brevità di ogni puntata rispetto a un normale spettacolo, e la fidelizzazione del pubblico necessaria alla serialità?

Daniele Villa «Sono due criticità ma anche due ricchezze. Di base noi abbiamo l’ossessione per la serialità. E un lavoro come quello sul Giro del mondo in 80 giorni di Verne, in cui si susseguono tante micro-avventure, si prestava a essere scomposto in più puntate. Inoltre, ci permetteva di intervenire sul territorio. Siamo una Compagnia residente a Pistoia, e l’idea di elaborare un progetto che coinvolgesse una serie di realtà musicali cittadine, sempre diverse a ogni puntata, e in altrettanti luoghi – tutti identificati con spazi culturali pistoiesi – ci sembrava adatta ad approfondire il rapporto con la città e i suoi abitanti. Detto ciò, stiamo anche pensando di rimetterlo in produzione, nel 2016, come spettacolo unico, in una versione da un’ora e mezzo circa».

S. B. «Mantenendo però la serialità in alcune situazioni, quali i Festival».

crediti foto di Andrea Pizzalis
crediti foto di Andrea Pizzalis

Come mai la scelta del reading? Ha a che fare con il testo originale, ossia il libro di Verne, o con esigenze sceniche?

D. V. «Di base il progetto non era pensato per essere una forma spettacolare risolta. Bensì un percorso che si dilatava nel tempo, site-specific, e in grado di restituire la semplicità propria del gioco da tavolo. Dopodiché ci siamo accorti che i reading, in senso stretto, non ci riescono. Anzi, ci annoiano. Quindi, abbiamo optato per un ibrido tra lettura scenica e spettacolo teatrale».

In War Now avete lavorato con Walter Sīlis – che ha collaborato alla regia e alla drammaturgia. È stato facile integrare la vostra matrice stilistica con quella del regista lettone?

S. B.: «È stata, innanzi tutto, una scommessa. In precedenza avevamo visto solo un suo lavoro in video e non lo conoscevamo né come persona né come artista. Del resto, lo spettacolo è nato da una commissione del Festival di Santarcangelo, che ha scelto sia la tematica sia la partnership. Per noi era la prima volta che, come Compagnia, allargavamo il collettivo. Le precedenti collaborazioni erano state motivate dalla necessità di competenze specifiche. Dal bisogno di uno scenografo o di un attore, ma mai di un’altra testa pensante. È stato quindi un esperimento interessante sia nel momento di spiegare la nostra metodologia ad altri, sia in quello di riadattarla. L’ostacolo maggiore, almeno per me, è stata la barriera linguistica. Banalmente, perché dovevamo parlare tutti in inglese, che non è la lingua madre di nessuno. In specifico, perché quando ci si confronta, all’inizio, e si discutono le metodologie teatrali, occorre tradurre in parole concetti teatrali alti.  Incontrarsi su ciò che volevamo raggiungere, spiegandoci in una lingua diversa dalla nostra, è stato il passaggio più complesso, anche a causa dei tempi produttivi molto stretti».

War Now nasce da una precisa sollecitazione: il centenario dallo scoppio della Prima guerra mondiale. Eppure non risente, come altre manifestazioni ideate a tal fine,  di forzature celebrative. Sembra piuttosto interrogarsi, in generale, sul senso della guerra (o sulla sua mancanza di senso). Da quali riflessioni siete partiti?

D. V. «L’incarico veniva da un Festival di teatro di ricerca internazionale, non aveva intenti celebrativi, questo, era già un sollievo rispetto a qualsiasi altro tipo di commissione. Non c’era neanche l’intento commemorativo. Ossia l’idea della ricorrenza e l’obbligo di ripensare a ciò che è stato. Si è trattato, al contrario, di ripensare in termini contemporanei alle istanze, legate alla Prima guerra mondiale, che possono riguardare noi, oggi. E a noi premeva focalizzare il discorso sulla nascita della macchina propagandistica. Storicamente, quello è stato il primo momento in cui scompare il re che ordina “Tu vai a morire”, e subentra la figura del re che motiva il popolo. Si creano delle mitologie premediatiche, per cui i soldati tedeschi, ad esempio, avrebbero mangiato i nostri bambini se non fossimo intervenuti. L’idea di Patria diventa popolare e non è più solo appannaggio delle aristocrazie.  La macchina della propaganda è partita per convincere il popolo della positività e dell’ineluttabilità del conflitto. Macchina che, oggi, ha raggiunto livelli di complessità ed efficienza quasi impensabili. Quelli erano i primi esperimenti sul linguaggio per rendere accettabile l’inaccettabile. Tornando allo spettacolo. War Now è suddiviso in tre capitoli. Il primo, dedicato al dialogo informale, alla TED Conference (conferenze annuali che si tengono a Vancouver e la cui mission è far conoscere “idee che val la pena diffondere”, n.d.g.), che cerca di fare abbracciare al popolo (e allo spettatore) un’idea che non condividerebbe. Il secondo, al blockbuster hollywoodiano che rende enterteinment quello che è, in realtà, orrore. E l’ultimo capitolo è dedicato alla commemorazione. Ossia alla retorica che stende una glassa su quanto accaduto, in modo da renderlo accettabile».

 

Crediti foto di Andrea Pizzalis
Crediti foto di Andrea Pizzalis

Molti tra i vostri testi sono originali. Non è così per Patogeno. Cosa vi ha affascinato nel lavoro di Albert Ostermaier e, soprattutto, come siete venuti a contatto con questo testo del 2002 che non era mai stato tradotto in italiano?

 

D. V. «La parola chiave è, di nuovo, commissione. Noi facciamo ciò che ci preme e ci interessa ma, parallelamente, ci piace lavorare su spettacoli che non avremmo mai pensato di realizzare. In questo caso, doppio esercizio perché abbiamo lavorato su un testo, fatto per noi inusuale. Nonostante la dinamica produttiva preponderante nel sistema teatrale italiano sia quella di avere un testo scritto a tavolino, successivamente messo in scena, noi lavoriamo diversamente: costruendo azioni che includono la parola. Dall’Intercity Festival, del Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino, spesso ci arrivano sollecitazioni per mise en éspace. Ossia, la semplice lettura di un testo straniero per farlo conoscere nel nostro Paese. Diversamente, quest’anno si è scelto un metodo di collaborazione più complesso e, tra i tanti testi che ci sono stati proposti, Patogeno ci ha convinti, in quanto affronta la figura del trader e la relativa psicosi finanziaria. Temi che ci interessano e sono nelle nostre corde».

Il personaggio di Sara Bonaventura in Patogeno è una vostra invenzione? Perché avete sentito l’esigenza di frammentare il flusso di coscienza del trader?

S. B. «Patogeno è un monologo scritto in versi. Le mie parti, nel testo, erano in corsivo e ricomprendevano i dati tecnici. Leggendolo approfonditamente per inventarci una regia ci è venuto in mente che questi corsivi potessero materializzarsi in una figura da TED Conference, sdoppiando il personaggio del trader».

Molti dei vostri spettacoli hanno una costruzione epica, nel senso brechtiano del termine (Patogeno, War Now). Raffreddate l’azione con lo straniamento. In altri è l’elemento dello humour nero, o British, quello prevalente (Homo Ridens). Scelte stilistiche motivate dal soggetto o viceversa?

D. V. «In realtà queste scelte derivano dal modo in cui guardiamo il mondo, come persone. Lavorare sullo straniamento, quindi sul distacco, sottrae tutta la retorica dall’opera e l’artista da una posizione di insegnamento che non ci è propria. Preserva la complessità, che è per noi fondamentale per assumere un punto di vista diverso sul lavoro. E, al tempo stesso, la capacità di ironizzare – che non serve a consolare, bensì a spostare il punto di vista. C’è un bel libro di Paolo Virno (Motto di spirito e azione innovativa, n.d.g.) che spiega come lo humour sia il tertium non datur. In parole povere, in una situazione di conflitto in cui ci sono due alternative, la battuta di spirito in termini freudiani trova la terza via, la risposta che non si era pensata considerando solo l’opposizione tra due istanze. E per me, se c’è una situazione tragica, la risposta retorico-drammaturgica è tagliarla nel mezzo con l’arma dell’ironia. Questa è una scelta identitaria dell’intera Compagnia».

 

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