MILANO – Si può rivedere uno spettacolo teatrale anche dopo averlo già recensito in modo critico? Se permangono delle perplessità, il rammarico di non aver potuto rivolgere all’artista le domande sorte durante la visione, allora sì. La funzione della critica è quella di analizzare e rendere conto di quanto visto. I giudizi che siano positivi, critici o negativi, non devono però apparire come dei voti, tanto meno delle bocciature, bensì delle riflessioni, là dove i vari aspetti teatrali (regia, drammaturgia, interpretazione…) non siano del tutto o parzialmente convincenti. Tra le funzioni del critico c’è anche quella di indagare l’evoluzione dello spettacolo, possibilmente in un teatro diverso, in una città differente e soprattutto quando si è stati per la prima volta al debutto dove ancora è tutto in via di definizione. È tradizione consolidata, quella di invitare i critici alle prime per avere subito visibilità sui media. Il teatro, al contrario, ha bisogno di tempo, di replicare fino a trovare il suo giusto consolidamento. Tutto si gioca in una manciata di minuti: tensione, apprensione, agitazione, recitazione e memoria, presenza scenica e un meccanismo drammaturgico e registico tutto da collaudare.
Se poi il testo è riferito al contemporaneo, ad una scrittura che nasce da un’idea sociale, culturale e/o scientifica, le possibilità di rischio aumentano esponenzialmente. E “Il Vangelo secondo Antonio” di Dario De Luca aveva in origine al suo debutto tali criticità. A distanza di tempo, rivedere lo spettacolo (andato in scena in prima nazionale, al festival Primavera dei Teatri 2016 di Castrovillari), questa volta a Milano al Teatro Ringhiera, ha permesso di rivalutare le impressioni suscitate dalla prima visione e riportate nella prima recensione (pubblicata su Rumorscena), dall’esito complessivo non soddisfacente. Raramente accade di potere rivedere lo stesso spettacolo per oggettive difficoltà e per le ragioni sopra citate. In questo caso è accaduto il contrario: la visione a distanza di tempo luogo e spazio, ha permesso di modificare il giudizio alla luce delle modifiche sostanziali operate dal regista Dario De Luca. La scena si presenta scarna, pochi oggetti essenziali, una cornice metallica illuminata con i led, semplicissima quanto efficace per creare una sorta di visione intimistica, e un crocefisso al centro. L’atmosfera è rarefatta e circondata dal nero del palcoscenico adatto a creare un ambiente che da religioso diventa un luogo della mente oscura: un prete si ammala di una patologia invalidante com’è l’Alzheimer, la sua vita subisce una regressione tale da impedirli di proseguire nella sua missione. Il sacerdozio, unitamente alla sua persona, si fondono per dare vita ad un’esperienza di sofferenza, come se la malattia avesse minato le sue convinzioni terrene nel tentativo di immedesimarsi (in qualche modo) nella figura cristologica. Si assiste ad un dialogo tra un uomo che necessita di cure e una donna (la sorella) e perpetua del sacerdote, votata ad ogni sacrificio pur di alleviare le pene del fratello.
È il fulcro iniziale su cui ruota la vicenda e dove la bravura del protagonista emerge a pieno, il suo personaggio nella fase della malattia conclamata, viene reso con abile interpretazione commovente per certi versi, affiancato da una bravissima e misurata Matilde Piana, così credibile nella parte di una donna che si sacrifica nel portare tutto il peso dell’umana pietà e compassione, per il fratello privato della sua dignità. Da qui in poi la resa scenica convince sempre di più. Si assiste ad un crescendo continuo dettato dai dialoghi e dalle azioni che sono state riviste, eliminando certi eccessi a scapito di una introspezione precisa – di cosa comporta realmente ammalarsi – , senza enfatizzare ma descrivere realisticamente quanto sia difficile affrontare e gestire la gravità di un malato in queste condizioni. Cosa comporta assistere un parente senza cedere alla disperazione. Non solo: anche la fede viene colpita nella sua essenza; il parroco così impegnato nelle sua attività pastorali e sociali, si annichilisce sempre di più e cerca conforto con il corpo (metaforico) di Cristo, sceso dalla croce e abbracciato come unico sollievo psicologico e spirituale, senza possedere la capacità razionale di comprendere i propri agiti. Cosa comporta addentrarsi nella condizione più profonda dell’animo umano? Un rebus misterioso e insondabile. Non ci sono risposte certe ma si prova una sorta di spaesamento, di smarrimento, volutamente reso dalla scrittura drammaturgica. Il giovane prete, assistente di Don Antonio (il giovane attore Davide Fasano), prenderà il suo posto e sarà promosso, come a significare che la vita continua e la sua missione proseguirà nelle mani di un altro. Purificato da una scenografia che toglieva spazio ma soprattutto la dovuta concentrazione nel capire le dinamiche che sono alla base del problema sanitario e specialmente sociale assistenziale, “Il Vangelo secondo Don Antonio”, è una testimonianza utile che permette (anche) al teatro, di sensibilizzare l’opinione pubblica, e farsi portavoce di quanto sia necessario conoscere e saper affrontare con tutti gli strumenti più idonei per affrontare un’emergenza sempre più grave. Il World Alzheimer’s Day e World Alzheimer Report 2016 riporta nella sua analisi come nel mondo 47 milioni di persone soffrono di demenza e che questo numero è destinato a salire, a causa dell’invecchiamento della popolazione. Solo in Italia si stima una cifra che si attesta intorno alle ottocentomila persone affette da questa patologia.
Il Vangelo secondo Antonio
Scritto e diretto da Dario De Luca con Matilde Piana, Dario De Luca, Davide Fasano produzione Scena Verticale
Visto al Teatro Ringhiera di Milano il 2 dicembre 2016
In tournée 11 e 12 marzo 2017 Teatro Sybaris di Castrovillari
19 marzo Novafeltria (RN), Teatro Comunale
24 marzo Sarezzo (BS), Teatro San Faustino