RUMOR(S)CENA – «Affidatemi il Bardo e sopra i suoi versi non cesserete di danzare» sussurrò Kenneth Branagh mentrerivisitava Pene d’amor perdute per il grande schermo, nel segno di Gene Kelly e di Busby Berkeley. Ventidue anni dopo, l’irrequieto cineasta, nativo di Belfast, classe ‘60, si rivolge al pubblico dei giovani e dei giovanissimi, svezzati a supereroi, superpoteri e fragorosi inseguimenti, lanciando una sfida non dissimile: “Portatemi Agatha Christie” – sembra dir loro – “e grazie ai suoi puzzles vi farò tornare bambini”. Bambini, beninteso, come lo si poteva essere nell’ultimo scorcio del sec. XIX, letteralmente persi in una nursery dove il tempo non passava mai e, tra scaffali e scaffali di balocchi, avrebbero certo spiccato il prassinoscopio e una casa di bambole dove i pupazzi non si limitavano a prendere il thè ma tessevano intrighi, consumavano tragicomici delitti; il tutto, ogni volta, senza sapere perché, mossi delle stesse turbolente, impietose mani. Più grandi di loro.
La fregola (e la sottile perfidia) di alcuni giochi d’infanzia e le cangianti forme del depistaggio scenico; un Artista di Teatro da un lato (il suddetto Branagh) e un Artista dell’Immagine Filmica (Ridley Scott, qui in veste di produttore), di sensibilità marcatamente pittorica, dall’altro. Idee, toni e inclinazioni, questi, che fanno di Assassinio sul Nilo il godibilissimo spettacolo che è. Liberamente ispirato al romanzo Poirot sul Nilo (prima edizione: Mondadori, ‘39), già adattato con successo per il cinema nel ’78 da John Guillermin, il film ci presenta Lynnette e Jacqueline (Gal Gadot e la bravissima Emma Mackey); amiche dall’infanzia, avvenenti in modo diverso come diversi sono il ceto d’origine e le fragilità psichiche abilmente dissimulate, entrambe le donne si invaghiscono del bel Doyle (Armie Hammer), occhio ceruleo e baffetti alla Errol Flynn, ma solo una porterà il damerino scavezzacollo all’altare. Chi delle due? E chi, invece, macchierà col proprio sangue una cabina del battello “Karnak”, che viaggia silenzioso sulle acque del Nilo in una torrida sera del 1937? Hercule Poirot indagherà… e voi al suo fianco, se lo vorrete, protetti, come sempre dal buio “amico” della sala.
Non poche decadi ci separano dalle pagine della Christie: il regista irlandese e il suo sceneggiatore, Michael Green (Blade Runner 2049), lo sanno perfettamente. E comprendono pure che la Settima Arte, innumerevoli volte e nei progetti più impensati ha citato, ammodernato o semplicemente plagiato la nota maestra del mistero (si guardino, fra tanti, D-Tox, Identità, Mindhunters). Il rischio della ripetizione è alto. Non c’è, dunque, più posto per la geometrica precisione, la compostezza, la classica sobrietà di struttura di certa narrativa poliziesca? Beh, Robert Altman con Gosford Park e Gilles Paquet-Brenner con il raffinato, ahinoi poco visto, Crooked House (tratto da È un problema, Mondadori, ’55) ci hanno dimostrato il contrario. Nondimeno Kenneth Branagh preferisce adottare un altro registro, ugualmente distante dal pur fortunato e ingegnoso Knives out di Rian Johnson: ancora una volta, e in ciò consiste la soluzione vincente diAssassinio sul Nilo (travisata dalla maggioranza dei critici), il nostro sfrutta, come scrisse già anni fa Stefano Bianchi, ogni possibile ammennicolo, strattagemma o “fioritura” della “macchina-cinema” al fine di celebrare, in un gioco di specchi contrario, la poliedricità del teatro, il mondo, cioè, che più gli è caro e che meglio conosce.
Prendere o lasciare. Nella pellicola ogni cosa è, infatti, “teatrale” nel senso comune e un po’ fallace del vocabolo: dichiaratamente finta, “eccedente” in luci, recitazione, tinte e movenze. Forse non è un caso che le maestranze siano per la stragrande maggioranza indiane: nel corso della visione si respira proprio l’atmosfera “scattante” e caleidoscopica di un’opera di Bollywood, virata appena appena “in nero” e opportunamente asciugata di canzoni e coreografie. Oltre che un investigatore, qui Poirot è soprattutto uno “spettatore”. Anzi, è “lo” spettatore e, al tempo stesso, il “critico teatrale” che guarda di sottecchi e giudica gli indiziati come si giudicherebbero, appunto, i caratteri di una pièce, denunciandone limiti, astuzie e brutture. Nelle mani dello scenografo Jim Clay (firmò lo splendido Onegin di Martha Fiennes) come nell’occhio del direttore della fotografia Haris Zambarloukos (Houdini’s Secret), il battello “Karnak” si trasforma poi, come alludevamo all’inizio, in un enorme “prassinoscopio”, con tanto di vetrate scorrevoli che “cuciono” attorno ai passeggeri degli espressionistici “valzer” proprio come gli specchietti, posti all’asse centrale di questo progenitore del cinematografo, infondevano vita alle figurine.
Beninteso, non abbiamo di fronte un capolavoro. Vizi modaioli e cadute di gusto (quali la sequenza di ballo nel tabarin londinese) non mancano. Tuttavia, Assassinio sul Nilo si ritaglia un posto d’onore fra quelle pellicole che, nel primo ventennio del Duemila, paiono caratterizzarsi – e in più occasioni, con insistenza, lo abbiamo sostenuto – per l’anelito, espresso per molteplici vie, di ricongiungersi ai primordi, ai briosi diversivi di fine Ottocento – che si sarebbero poi evoluti nella “creatura” dei fratelli Lumière – perché fungano da “segni”, debitamente reinterpretabili, sul cammino che porterà alla filmografia di domani, ancora totalmente da vedersi, checché se ne ipotizzi. Per il resto, il fascino di un’Egitto sensualmente irreale (fatto di crepuscoli d’ambra e coccodrilli che guizzano fuori dall’acqua per addentare garzette), l’insidioso viaggio nelle pieghe dell’animo umano, la ricerca della Verità condotta con l’acume dei sensi e la “sacra” abnegazione, modernamente camuffata, di un cavaliere medievale… accentuati dalle nuove tecniche, giungono allo smaliziato fruitore di oggi ancor più pervasivi. Da segnalare, infine, i costumi di Paco Delgado (Blancanieves).