RUMOR(S)CENA – MILANO – Vanessa Van Durme è una nota attrice e sceneggiatrice belga, nata uomo nel 1948, attiva da anni nella lotta contro i pregiudizi e le discriminazioni nei confronti di coloro che non si riconoscono nella cosiddetta “sessualità della norma”, la categoria oggi indicata con l’abbreviazione LGTBQ+, che sta per Lesbiche, Gay, Transgender, Bisessuali, Queer (ma con quel “+”, che apre ad ulteriori, possibili categorie).
Una quindicina di anni fa concepisce un’idea: creare uno spettacolo che si presenti come serata d’addio per la chiusura di un cabaret di terz’ordine, recuperando antichi compagni di lavoro, già anziani, per lo più drag queen. Il suggerimento è raccolto dal coreografo Alain Platel, fondatore di Les Ballets C de la B (una sigla che sta per Ballets Contemporains de la Belgique) e dal regista Frank Van Laecke. Col contributo del compositore Steven Prengels, nasce così Gardenia, uno spettacolo dalla molteplice identità e varietà di registri espressivi, che debutta il 25 giugno 2010 al teatro NT della città di Gand.
Il successo è notevole: oltre duecento repliche, tournée in Australia, negli Stati Uniti, in Russia. In Italia approda a Milano circa dieci anni fa, al Teatro Franco Parenti, e Andrée Ruth Shammah ha deciso di ospitare due repliche di questo spettacolo all’interno dei festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario del teatro, dedicati al tema di quella che a lei piace chiamare, non “la terza età”, bensì “la grande età”. Ma neppure le dimensioni della Sala Grande di via Pier Lombardo erano sufficienti a contenerlo. E allora, come omaggio del Piccolo Teatro a un’istituzione teatrale ormai connaturata all’identità culturale milanese, l’evento viene ospitato nella sede intitolata a Giorgio Strehler.
Già l’edizione 2010 di Gardenia era all’insegna della nostalgia: per una stagione artistica esaurita, per una giovinezza ormai tramontata. Ma questa ripresa – sottotitolata 10 years later – con attori già anziani dieci anni fa costituisce una sorta di gioco di teatro nel teatro, e aggiunge un’ulteriore valenza, un più intenso e dolente sguardo, non solo su un ipotetico mondo tramontato, ma anche sui segni che il tempo ha impresso sui corpi di quegli stessi artisti, che hanno scelto ugualmente di tornare sul pezzo, e dimostrare la loro perdurante vitalità artistica.
Viene naturale un parallelo con Kontakthof mit Damen und Herren ab ’65, il progetto coreografico di Pina Bausch del ’78, ripreso quasi un quarto di secolo dopo con attori anziani non professionisti: un’operazione che, in quel caso, si risolveva in una tenera, affettuosa riflessione sulla grazia segreta che può avere anche la terza età, nella reciproca ricerca di un contatto fisico, declinata con ironia e delicatezza. In Gardenia, invece, la nostalgia per una stagione, forse mitizzata e reinventata nel ricordo, si intreccia con la malizia beffarda, tipica delle drag queens.
Il risultato è un oggetto spettacolare felicemente ambiguo (un concetto, quello di ambiguità – che poi è polisemia – da rivalutare in senso positivo) che si sviluppa in una molteplicità di registri espressivi. In locandina compaiono i nomi dei nove artisti, che condividono collettivamente la responsabilità creativa del lavoro: Vanessa Van Durme, Griet Debacker (l’unica interprete nata donna), Andrea De Laet (†), Richard ‘Tootsie’ Dierick, Danilo Povolo, Gerrit Becker, Hendrik Lebon, Dirk Van Vaerenbergh, Rudy Suwyns.
All’apertura del sipario sono tutti presenti, in piedi, in abiti maschili, e sembrano muoversi con passo malfermo mentre prendono posto su sedie imbottite di rosso, poste ai lati del palcoscenico; solo Hendrik Lebon (l’unico attore giovane e aitante del cast) rimane in fondo alla scena; e resta vuota una sedia, un omaggio alla memoria di Andrea De Laet: su questa verrà posato con delicatezza un vestito rosso: il costume di scena dell’artista, non più nel mondo dei vivi, il cui nome compariva in locandina seguito da una croce.
Sarà Vanessa Van Durme, con autorevolezza, piglio carismatico ed energico, a volte anche arrogante (“Ti ho detto di andare in fondo, troiona!”), a condurre i giochi per tutta la durata dello spettacolo (un’ora e quaranta minuti), anche dopo aver assunto l’aspetto di una imponente matrona, turbante in testa. All’inizio tocca a lei, in proscenio, presentare lo spettacolo come serata d’addio per la chiusura di un vecchio cabaret malfamato ricordandone i fasti, e anche le vicende private dei suoi interpreti, con un misto di sentimentale nostalgia e pesanti doppi sensi goliardici. Canterà, con voce roca ma seducente, Somewhere over the rainbow, la struggente canzone scritta nel ’39 per Judy Garland, che parla di sogni e di speranze, diventata anche uno degli inni del movimento di liberazione omosessuale: un tema musicale che sarà ripreso in vari momenti dello spettacolo, alternato a brani di Puccini e a un appassionato Cucurrucucú Paloma cantato da Griet Debacker.
Le scene si susseguono senza un filo logico rigoroso. Molto apprezzabile, ancorché forse ai margini della poetica drag queens, l’esibizione coreutica, quasi acrobatica, del vigoroso Hendrik Lebon. Ma è sulle note del Bolero di Ravel, sostenute da una coreografia minimale, che si consuma sotto i nostri occhi una sorprendente trasfigurazione: le figure appesantite di quegli anziani, alcuni decisamente non avvenenti nei loro abiti maschili addirittura sformati, se ne liberano e, indossando agilmente i loro vecchi costumi di scena femminili dai colori sgargianti, le calze velate e le scarpe dal tacco alto, si trasformano in seducenti, maliziose, leggiadre drag queens, come opache crisalidi che diventano farfalle variopinte.
Visto al Teatro Strehler di Milano il 9 settembre 2022