MESSINA – Angelo Campolo, deve essere un artista, attore e regista, che ama le sfide: “Vento da sud-est” (andato in scena a Messina, nello spazio della Sala Laudamo al Teatro Vittorio Emanuele (fino al 15 novembre scorso) è uno spettacolo che sembra fatto apposta per sfidare tutta una serie di situazioni che avrebbero frenato qualsiasi teatrante che vi si fosse misurato. Intanto il tema, ovvero il racconto del fenomeno attuale della migrazione dall’Africa e dall’Asia in Occidente, prendendo l’abbrivio da Pasolini del romanzo “Teorema”, a quarant’anni dalla sua morte violenta e ancora misteriosa, e scontando, ovviamente, soprattutto negli ultimi giorni, le tensioni legate ai tragici fatti di Parigi. Tutto facile apparentemente, tutto maledettamente difficile, se non si voleva correre il rischio della banalità, della superficialità, dell’approssimazione, e un buonismo a buon mercato. Prima un laboratorio teatrale e poi lo spettacolo con un cast formato da attori professionisti e da giovani immigrati del Mali ospiti a Messina dal Centro di accoglienza Ahmed. In scena: Patrizia Ajello, Luca D’arrigo, Bella Aigbedion Glorynittes, Michele Falica, Antonio Vitarelli, Claudia Laganà, Giuliano Romeo, Gotta Juan, Dembele Ousmane, Dawara Moussa Yaya, Camara Mohammud.
Angelo Campolo spiega il senso del suo lavoro.
Non credo che si possa parlare del suo spettacolo senza mettere in relazione questa esperienza con quanto di tragico è accaduto proprio in questi giorni a Parigi: il “Vento da sud-est” ha rivelato il suo aspetto violento. Avete fatto una riflessione in tal senso?
«Sin dal primo giorno di lavoro tutti noi, ragazzi del Mali compresi, abbiamo dichiarato la nostra intenzione di non voler “santificare” in alcun modo la figura dei giovani migranti. Usciamo da quest’esperienza convinti che sia impossibile tracciare una linea di demarcazione tra buoni e cattivi. Ma è proprio lì dove si aprono delle contraddizioni, delle zone grigie, che deve agire il teatro oggi, smettendola con l’autoreferenzialità, andando incontro al rischio di sbagliare pur di sollecitare dubbi, interesse e domande negli spettatori. I fatti di Parigi sono stati uno shock per tutti e non è stato certo facile per la Compagnia affrontare l’indomani il palcoscenico sapendo di dover interpretare anche il pensiero e le parole di chi fomenta l’odio e strumentalizza la paura. Detto questo, alla fine della replica, sono stati i quattro ragazzi musulmani africani a chiedere un minuto di silenzio per le vittime. Un’emozione fortissima tra il pubblico, per quel gesto compiuto proprio da coloro che scappano da paesi in cui deflagrano conflitti armati tra la popolazione. Nel nostro piccolo, credo sia stata la risposta migliore da dare a quanto è accaduto».
Per parlare di immigrazione, ospitalità e integrazione, lei è partito proprio dal magistero di Pasolini.
«Il lungo studio di analisi e di ricerca drammaturgica intorno al suo romanzo “Teorema”, ha condotto me e Simone Corso ad elaborare una drammaturgia originale partendo dalla domanda: chi è lo straniero che arriva e stravolge l’equilibrio di una famiglia borghese oggi? Cinquant’anni fa, in un contesto socio politico completamente diverso, l’ospite veniva descritto da Pasolini bello, biondo, provocante, probabilmente venuto dal paradiso a dimostrare come la classe borghese fosse incapace di assorbire il verbo sacro. Oggi, il confronto con lo straniero, specie in una città come Messina che nell’ultimo anno ha accolto 8000 migranti, ci parla di un ospite che viene dritto dall’inferno e forse non ha neanche tanta voglia di interagire con noi, ma piuttosto di attraversarci, dato che, con tutti i nostri allarmismi, polemiche e proclami, restiamo una piccola tappa all’interno di un viaggio “biblico”, per noi ancora difficile da comprendere fino in fondo. Da qui abbiamo riscoperto la straordinaria forza delle parole di Pasolini che ancora oggi spaventano perché portano messaggi duri da accettare. I “destinati a morire” di cui parla nelle sue “lettere luterane” siamo noi, ovvero coloro che hanno smesso di affrontare la vita, spesso portatori sani di depressione e rabbia repressa. Ecco perché abbiamo scelto di affidare ai ragazzi africani il compito di confrontarsi sulla scena con Pasolini, chiamandolo direttamente in causa. Chi meglio di loro può raccontare le ferite, i dolori, ma anche la forza e la grande vitalità che può regalarti lo scontro con la vita?».
Come ha scelto i giovani immigrati africani che hanno lavorato al suo progetto? Che cosa cercava in loro ? Hanno esperienze artistiche precedenti?
«Non è stata una scelta programmata in alcun modo, tutto è avvenuto da sé. All’inizio non avevamo idea di chi avremmo incontrato, né di cosa sarebbe successo. Abbiamo dato il benvenuto ai giovani migranti del centro accoglienza Ahmed che per la prima volta nella loro vita, mettevano piede in un teatro. Il loro ingresso in fila indiana, l’imbarazzo, le risate, gli sguardi incerti, la fierezza e il dolore negli occhi, sono immagini che non scorderò mai. L’intenzione era quella di capire se eravamo in grado di conquistare la loro fiducia per far in modo che parlassero di sé, non per raccogliere una “testimonianza” secondo lo stile di inchiesta televisiva, ma per lasciare che si esprimessero in forma personale e dunque artistica, attraverso la scelta di una musica, di un movimento, di un brano da leggere. Pian piano è arrivata la scrittura e questo è stato un momento di svolta decisivo che ci ha fatto comprendere che alcuni di loro avevano voglia di affrontare l’avventura dell’andare in scena. Nessuno ha avuto precedenti esperienze artistiche, ma nella cultura dei ragazzi del Mali, l’idea dell’aggregarsi intorno a un fuoco per ascoltare un racconto è qualcosa di naturale, che fa parte del loro modo di essere. Questo, insieme ad una grande senso della disciplina e ad una disposizione caratteriale mai ostile, ha facilitato il mio lavoro registico e ha reso bello e importante ogni singolo giorno delle nostre prove».
Quale valore aggiunto porta la metodologia del laboratorio nella creazione di uno spettacolo che voglia oggi confrontarsi con la realtà?
«Secondo il mio modo di vedere e operare, l’esperienza laboratoriale, e non solo, andrebbe condotta con l’obbligo di “tenere la porta aperta” rispetto a ciò che avviene fuori dal teatro, non per produrre una metodologia teatrale che attualizzi tutto ad ogni costo, ma per tenere viva l’attenzione rispetto all’urgenza, la necessità e l’importanza di ciò che raccontiamo. E questo, naturalmente, avviene a prescindere dal contenuto che scegliamo di raccontare che, al contrario può essere lontanissimo dal nostro presente in termini di linguaggio, forma o estetica. In quanto al metodo, il laboratorio ti obbliga continuamente a mediare con il gruppo umano con cui ti confronti, portandoti spesso a dover compiere delle rinunce o a dover trovare dei compromessi rispetto a quanto ti eri prefissato. Questo da alcuni viene visto come un limite, tant’è che spesso il termine “laboratoriale” viene utilizzato come giustificazione preventiva di uno spettacolo aperto al pubblico, io al contrario credo che si tratti di una grande sfida in grado di poter immettere nel nostro lavoro una diversa emotività, tanta vivacità e un sguardo sulla realtà più partecipe di quanto spesso riusciamo a fare da persone che “vivono di solo teatro”».
Lei crede che Messina, al di là delle persone culturalmente già disponibili, a confrontarsi positivamente con questo tipo di messaggio, abbia recepito il senso del tuo lavoro?
«Lo spero. Mi ha sorpreso la presenza in sala del questore, del sindaco, del commissario della provincia, di diversi esponenti politici di destra e sinistra, oltre che di numerose persone che di solito non mettono piede in teatro. Lo spettacolo ha destato curiosità e partecipazione. Con la nostra compagnia “Daf – Teatro dell’esatta fantasia” io e Giuseppe Ministeri, lavoriamo da anni alla formazione sul territorio ed è chiaro che per “formazione” non intendiamo solo aspiranti attori, ma anche e soprattutto presenti e futuri “spettatori” che sviluppino una coscienza critica che li porti ad avvicinarsi al teatro. Ognuna delle sei repliche di “Vento da sud est” ha registrato il tutto esaurito, e questo credo sia un segnale importante per far capire alle istituzioni, al di là delle nostre individuali concezioni politiche, che il teatro deve iniziare a riempirsi di nuovo pubblico, riuscendo a trovare una sua popolarità anche quando supera il semplice intrattenimento».
Desidera continuare questo tipo di lavoro? Crede sia necessario?
«Penso di sì, ho scelto di spendere la mia vita, il mio lavoro e il mio impegno per rendere necessario quello che facciamo. Dopo Vento da sud est, annunceremo presto la nascita di un progetto di integrazione che, attraverso il teatro, produca un incontro con gli stranieri. “Progetto Parola Pasolini”, invece proseguirà senza i migranti, con i prossimi due spettacoli, incentrati su danza e musica, diretti dalla coreografa Sarah Lanza, e dall’attore Annibale Pavone, in collaborazione con Celeste Gugliandolo e Giorgio Mirto».