RUMOR(S)CENA – FESTIVAL TESTIMONIANZE RICERCA AZIONE – GENOVA – La decima edizione del Festival Testimonianze ricerca azioni, organizzato dal Teatro Akropolis di Genova con la direzione artistica di Clemente Tafuri e David Beronio, ha visto protagonista e per il secondo anno consecutivo, la danza butō, con un’intera giornata incontro in cui sono sono confrontati studiosi ed esperti nel settore delle performing arts, e la messa in scena di tre spettacoli a Palazzo Ducale di Genova Fondazione per la Cultura.
Il caso del butō a cura di Samantha Marenzi, aveva come protagonisti la moderatrice del dibattito Katja Centonze, Raimondo Guarino professore ordinario di Discipline dello spettacolo all’Università Roma Tre, Alessandro Pontremoli docente di Storia della danza all’Università degli Studi di Torino e presidente della Commissione consultiva per la danza del MiBACT) e la stessa Samantha Marenzi ricercatore e docente presso il DAMS dell’Università Roma Tre. Gli esperti hanno cercato di illustrare, dalle origini fino a i giorni nostri, il percorso di questo originale genere di danza contemporanea che si è manifestato per la prima volta in un festival giapponese nel 1959, dove il coreografo Tatsumi Hijikata venne bandito e censurato a causa del tema incentrato sull’omosessualità. La scena finale interpretata dal danzatore Yoshito Ōno fu definita un oltraggio alla morale pubblica. Ispirato da scrittori maledetti, tra cui Antonin Artaud e Yukio Mishima, Tatsumi Hijikata proseguì nel sovvertire le consuetudini fondamentali della danza. Il suo linguaggio coreografico seppur poetico e surreale sfociava altresì nel grottesco, nel decadente, inducendo il danzatore a trasformarsi in animali oppure oggetti, ma non tanto da un punto di vista fisico, quanto prevalentemente attraverso una immedesimazione psicologica.
A connotare tale corrente coreografica furono la nudità, il corpo dipinto di bianco ed alcuni richiami al teatro classico giapponese. Questo discusso artista creò numerose coreografie per il più grande danzatore Kazuo Ōno (padre di Yoshito), ed insieme contribuirono a diffondere la danza butō e nei primi anni ottanta la sua estetica ha iniziato a contaminare anche altre culture. «Come non rammentare – ha spiegato Alessandro Pontremoli – gli innovativi ed onirici allestimenti del grande maestro Lindsay Kemp con il suo indimenticato Flowers, liberamente tratto dal testo di Jean Jenet Nostra Signora dei fiori, in cui lo stesso Kemp danzava e si muoveva al ritmo di La vie en rose caratterizzato da una tale grazia e lentezza e con il suo viso estatico dipinto di bianco dove non si poteva non rilevare l’evidente omaggio alla filosofia butõ».
Il butõ delle origini si trova spesso nella danza contemporanea di oggi; la riprova è nella testimonianza della perfomance di Alessandra Cristiani, Corpus delicti, presentata al festival. Nuda, con una fascia rosa che le attraversa verticalmente il corpo candido, di spalle, si muove molto lentamente su di un sottofondo musicale fatto di gocce di pioggia che cadono, anch’esse lente, rilassanti, accompagnate dalle note di un ensemble di chitarra classica, violino e pianoforte al quale si unisce un canto di donna, mentre il suono della pioggia si fa sempre più vigoroso. Sullo sfondo il crepitio lucente di una candela, posata su di un vecchio candelabro. Ogni forma assunto dal corpo della danzatrice pare veramente ricondurre a i disegni erotici del pittore Egon Schiele, ai quali Alessandra Cristiani si è ispirata e ha scelto come titolo del suo assolo. Con le articolazioni in continuo lento movimento, al limite del possibile, solleva la candela con entrambe le mani e con essa esplora il proprio corpo pericolosamente esposto alla fiammella bruciante. Appaiono lunghissimi i momenti in cui, sdraiata al suolo, con il corpo aperto davanti al pubblico, appoggia la mano che tiene la candela molto vicina alla sua parte più intima del corpo. La pioggia viene a cessare. La scena cambia completamente.
La vediamo indossare una veste virginale, bianca, nel silenzio più totale. Dopo alcuni attimi di luce che acceca gli spettatori, la danzatrice si presenta vestita, indossando comodi pantaloni, una camicia e giacca dagli sgargianti colori. La danza diventa più contemporanea e si manifesta in un turbinio di movimenti quasi estetici anche se convulsi. Il suono della pioggia e degli strumenti musicali torna con vigore mentre a poco a poco la luce si abbassa per lasciare un solo occhio di bue puntato sulla performer, la quale ripone la candela sul candelabro, sotto un graduale lento ritorno del silenzio. La candela viene spenta dalla danzatrice e cade un denso buio. Un emozionale viaggio visivo e suggestivo mediato attraverso il corpo femminile per condurre nell’allucinogeno mondo della visione butõ rappresentato da una perfomer occidentale.
La natura più arcaica della filosofia butõ si è potuta ammirare durante la performance di Yumiko Yoshioka, giapponese, ora residente stabile in Germania, considerata tra le più importanti danzatrici al mondo. Tra gli anni Settanta e Ottanta è stata un membro della prima compagnia di danza giapponese butõ Ariadone, composta tutta al femminile e co-protagonista, insieme a Ko Murobushi e Carlotta Ikeda, di Le dernier Eden presentato a Parigi. Viene considerata la prima rappresentazione di teatro butõ fuori dal Giappone. Da più di un ventennio è direttore artistico di “eX … it!” (Dance and Butõ Exchange Research Project), il festival che riunisce più di 100 artisti e studenti di danza provenienti da tutto il mondo. All’interno del Festival Testimonianze ricerca azioni ha presentato 100 light years of solitude (100 anni luce di solitudine), in prima nazionale, all’interno della Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale. È una strana creatura quella che esce da un bozzolo nero e che si erge con una tenera incertezza su due fragili estremità palmate. Improbabile che sia ispirata dalle strane creature descritte in uno de i capisaldi della letteratura latinoamericana: Cento anni di solitudine di Gabriel Garçia Marquez, la danzatrice Yumiko Yoshioka emerge a poco per volta in un singolare assolo. Dal bozzolo ancestrale fuoriesce una creatura che ha sembianze animali di preistorica memoria, dotata di una lunghissima coda o proboscide che si trascina appresso e con la quale gioca.
A volte gioiosa per il nuovo mondo che sta via via scoprendo, a volte impaurita, questo essere capace di liberarsi dalla calotta che nasconde il proprio cranio, scioglie una capigliatura di lunghissimi capelli corvini e rivela il suo viso particolare ed espressivo nel proseguire esplorare e giocare con il proprio strano corpo e con ciò che trova sul suo cammino. È sola, disorientata ma intenzionata ad ambientarsi in quel pezzetto di mondo, a cento anni luce di distanza (da dove? dalla Terra?) in cui ha visto muovere i suoi primi passi. Una solitudine ma non segnata dalla tristezza, però.
Forse perché la creatura non può avere termini di paragone, non conoscendo altro rispetto a ciò che ha visto e ascoltato e percepito fin dal primo istante di vita. E l’acqua incontrata sul proprio cammino può diventare compagna di giochi e di viaggio. Perché le asperità del terreno sulle quali cammina diventano il proprio quotidiano. Yumiko Yoshioka – spiega nelle sue note di regia – di come il butõ spesso sia stato creduto una forma che rappresentasse una danza dolorosa, intrisa di sofferenza, mentre invece la sua personale visione è sempre stata quella di danzare per illuminare l’oscurità e trasformare la tristezza in gioia.
Visti al Festival Testimonianze ricerca azione di Genova il 9 Novembre 2019