RUMOR(S)CENA – I RAGAZZI CHE SI AMANO – TEATRO ELISEO – In scena al Teatro Eliseo di Roma fino al 1 marzo, “I ragazzi che si amano”, è scritto e interpretato da Gabriele Lavia, uno spettacolo tratto dalle opere del poeta francese Jacques Prévert. L’allestimento si compone di una scenografia in cui si vede una panchina, un tavolo con un mazzo di fiori, un attaccapanni, una chitarra all’estrema sinistra del palcoscenico ricoperto da un tappeto di foglie morte: un tutto che racconta un tempo “andato”, un passato remoto, un qualcosa di cui non c’è più traccia se non in quel che rimane da proferire per far ricordare e accordare il suono di parole; l’unica testimonianza che un poeta può lasciarci, come vero testamento della propria esistenza, del proprio sentire di vivere o di morire, anche.
Gabriele Lavia si presenta in scena come un mattatore dell’Ottocento, un Ermete Zacconi un po’ affaticato e stanco che inciampa nella memoria di battute, su alcuni versi (gli stessi che dovrebbero fare da padre a tutto lo spettacolo), quanto insicuro sul carattere da dover dare al proprio lavoro, perché preso nel raccontare un “troppo” sapere difficile da contenere. La domanda è: cosa si sarebbe aspettato di vedere uno spettatore? Dal titolo I ragazzi che si amano, uno spettacolo su Jacques Prévert, probabilmente un’ora e un quarto di racconto sulla vita del poeta francese, dalle parole “semplici” e dirette all’amore, carnale, fisico, fino a quanto fa bene e stare male.
Fin dalla prima battuta tutto sembra fuorché uno spettacolo, bensì una lezione. Di cosa alla fine non si comprende. L’attore si dimena con la maestria dell’utilizzo del suo corpo e della sua voce; è certo, quasi a volere dimostrare di essere ancora capace, dopo tanti anni di sacrificio per il teatro: lo è senza dubbio.
Non è sufficiente perché dà uno spazio spropositato alla parola che scivola in maniera incessante, fluida ma senza leitmotiv, anzi, declassando prima e perdendo di vista, poi, l’obiettivo principale: ossia parlare di Prévert, alla fine “un poeta semplice, chiunque potrebbe scrivere come lui”. Perché dedicare allora una serata al poeta francese? Forse per provare a decifrare dalla lingua originale all’italiano le sue poesie, emarginate da discorsi sull’importanza di pensieri filosofici come quelli del filosofo Karl Jaspers o Heidegger, sul proprio vissuto da attore poco in parallelo con la tematica che sarebbe dovuta essere sotto un unico occhio di bue? O giocando continuamente sull’etimologia di ciascuna parola pronunciata, lisciando il rumore e poi abbandonando lo spettatore alla comprensione del perché tale scelta. Il risultato ottenuto è solo confusione alternata a qualche parola francese, a una conoscenza di elementi senza ordine, in quella che sa soltanto di lezione a scolari seduti in platea. “Siamo a teatro” esordisce Lavia. Certo, ma in un teatro incomprensibilmente borghese e voyeuristico, alla totale mercé di dimostrazione della propria abilità tecnica e orale.
Moravia lo avrebbe classificato all’interno della sua definizione di teatro della Chiacchiera, “un rituale dove la borghesia si rispecchia, più o meno idealizzandosi, comunque sempre riconoscendosi” come definì Pasolini all’interno del manifesto del Teatro al punto 11. Il problema è capire realmente il pubblico se si riconosce in quale parte di “edonismo intellettuale”. Di cosa necessitiamo di fronte a uno spettacolo (?) del genere? Cosa, in realtà, rimane di tre cerini accesi? Forse la semplicità non è da apprezzare?
Visto al Teatro Eliseo il 18 febbraio 2020