Parafrasando una celebre espressione divenuta uno slogan “resistere, resistere, resistere”, la volontà del Teatro Akropolis di Genova, sembra assumere una connotazione identica nel suo agire artistico e professionale. Resistere in nome di un’ideale da perseguire tenacemente a fronte di una logica in cui la parola cultura trovo poca considerazione in sede di potere decisionale che risponde alla volontà politica di chi ha il compito di amministrare e finanziare. Il Teatro italiano vede sempre più ridursi i contributi necessari per dare vita a stagioni e rassegne come l’annuale “Testimonianze ricerca azioni” ideata da Clemente Tafuri e David Beronio direttori artistici.
L’edizione 2013 ha visto la presenza di sole tre compagnie ospiti oltre quella residente. Il valore aggiunto e non marginale per importanza, è dato dall’impegno editoriale e culturale che questo gruppo genovese prosegue da anni con la pubblicazione annuale di un volume dedicato alla ricerca teatrale con l’intento di dialogare con un pubblico più vasto rispetto a quello che abitualmente frequenta i teatri. Il 2013 segna la nascita del quarto volume incentrato su tre quesiti sottoposti agli autori e registi. Tre domande ritenute essenziali dagli autori nell’ispirazione e nella composizione dell’opera teatrale. “Cosa rende un’opera letteraria interessante per il tuo lavoro? In che modo lo ispira o ne fa parte? – Rappresentazione (mimesi) e comunicazione. Sono queste le due vie principali attraverso cui declini il tuo lavoro o ne esistono altre? – Quali sono le condizioni, oggi, in cui il teatro può assolvere il suo naturale ruolo politico?”
Non si tratta però di un dibattito che rientra in una normale dialettica tra coloro il teatro lo fanno e lo producono ma è il tentativo di uscire da quella logica autoreferenziale dove l’argomento è riservato ai solo addetti ai lavori. Le intenzioni degli autori sono altrettanto chiare nella loro prefazione dove viene ribadito che le “responsabilità vanno vissute con coerenza e ostinazione e vanno affrontate, a prescindere dal fatto che qualcuno ne finanzi la possibilità”. E a fronte dell’impoverimento a cui stiamo assistendo Tafuri e Beronio si rimboccano le maniche e ribadiscono la volontà di “lottare per l’affermazione del proprio lavoro e rendere evidente la necessità che esso venga sostenuto. Non c’è più tempo per recriminare … per vivere la propria arte riducendola a una rassicurante chiacchierata tra intellettuali o professori”. Inutile piangersi addosso spiegano gli autori là dove se pur consapevoli di uno stato di crisi è necessario essere vitali e spietati. “Spietati con noi stessi, pronti a spingere al limite la nostra ricerca e ad argomentarne il senso, dargli forma, prendere coscienza del fatto che esistono molti modi per comprendere il mondo che ci circonda e tentare di cambiarlo”, senza per questo pensare all’arte come unica soluzione possibile: “Non è automatico che l’arte sia un modo valido per chiunque”.
Ne consegue la necessità di porsi delle domande di chi sono le responsabilità dirette e il pensiero va agli artisti? Alla critica? Gli studiosi? Si ma non basta. “Queste responsabilità sono anche del pubblico, di chi il teatro non lo fa ma lo segue”. Interessante l’autocritica che ne segue: “Una delle cause della miseria del nostro tempo è lo squallore con cui proprio gli artisti hanno rinunciato a considerare tale il pubblico” . A supporto di tale affermazione viene citato uno degli esponenti di spicco del Teatro italiano, il compianto Leo de Berardinis, il quale sosteneva che l’unico modo per rispettare il pubblico è ignorarlo. In un’epoca di degrado anche culturale in mancanza di un’assunzione di responsabilità anche da parte dello stesso pubblico (definito frequentatore dei teatri come “i divani dei loro salotti”) chiamato in causa insieme agli artisti e la critica, per partecipare alla vita del teatro in “maniera, attiva, consapevole, viva. Critica non solo nei confronti del proprio vissuto, del suo stare nello stesso modo in cui quell’opera si manifesta”.
La semplice fruizione diventa un retaggio del passato e la visione che “Testimonianze ricerca azione” si fa carico denota un impegno al quale è impossibile sottrarsi. Il capitolo “Tre domande agli autori e registi” riporta tra gli altri i contributi di Enrico Castellani e Valeria Raimondi (Babilonia Teatri), Matteo Lanfranchi (Effetto Larsen) Riccardo Spagnulo (Fibre Parallele), Saverio La Ruina (Scena Verticale), Corrado d’Elia (Teatri Possibili), Daniele Villa (Teatro Sotterraneo), e di Roberta Nicolai di triangoloscalenoteatro/teatridivetro , invitata dal Teatro Akropolis con “Profanazioni – Il Minotauro; Trittico dello Spaesamento, primo quadro tra Profanazioni di Agamben e il Minotauro di Borges” (lo studio ha preso spunto anche dall’ispirazione de La casa di Asterione di Borges), seguiti da “Nudità di Agamben e la Metamorfosi di Kafka” e “L’uomo senza contenuto-infanzia di un capo. Tra l’uomo senza contenuto di Agamben e Infanzia di un capo di Sartre”.
A Genova, la compagnia romana presentava il primo quadro che compone il Trittico, il quale ha debuttato al Romaeuropafestival del 2010. Lavoro concettuale e intellettuale quello scelto dalla Nicolai per adattare ad un linguaggio drammaturgico e visivo il pensiero filosofico di Giorgio Agamben incentrata sull’uomo contemporaneo e il suo universo emotivo-relazionale con tutte le implicazioni connesse allo stato psichico e corporeo. Al centro di tutto c’è l’identità dell’uomo in relazione al suo doppio, sottoposto a sollecitazioni continue che lo costringono ad interrogarsi con se stesso. Materia ostica nel suo continuo rimando a dimensioni esistenziali dove perdersi come in un labirinto di significati dove ci si perde e ci si ritrova nel rischio di non trovare mai una via d’uscita. È l’uomo stesso a vagare in cerca di una sua incessante definizione nel tentativo estenuante di percepirsi come reale e vivo. La traduzione sulla scena si materializza con dei semplici materassi che mutano da giacigli a paraventi inizialmente deposti a terra fino ad essere innalzati in aria mediante un intreccio di corde che pendono dal soffitto.
Due corpi che si sdoppiano e si muovono nello spazio ristretto che non è altro che una proiezione della mente. Due uomini a cui è stato affidato il compito di esprimere con la propria espressività corporea i moti dell’animo come un viluppo di emozioni, regressioni del passato, proiezioni, rievocazioni di una vita che fu. L’infanzia, una torta di compleanno, fotografie che raccontano affetti famigliari. Il presente è dato dai corpi che devono interagire con un album dei ricordi. Il nucleo centrale è dato dallo snodo rappresentato dal tema del doppio che viene a crearsi per la presenza di due performer (Michele Baronio e Enea Tomei) con l’intento di duplicare ogni movimento, gesto, significato. Specchiarsi l’uno nell’altro per dare senso alla loro esistenza che nel mondo tende ad alienarsi, a perdersi. L’annullamento dell’identità è sempre dietro l’angolo dove la ricerca esasperata di senso è costante e sembra esasperare tutta la narrazione drammaturgica. Fin qui le intenzioni espresse dal progetto che visto solo in un unico quadro (rispetto all’intero Trittico) può risultare parziale nel giudizio che emerge dalla visione e comprensione.
L’impressione che il tema sia altamente ambizioso e necessiti di un meccanismo scenico specie nella parte fisica corporea di maggiore sincronismo, perfezione del gesto là dove la fisicità del corpo diventa essa stessa protagonista. Le proiezioni che si riflettono sui materassi sono la parte documentarista del pensiero che emanano le menti dei due protagonisti e si accavallano nel loro susseguirsi. Non sembra trovare una coesione e una fusione organica l’intento di dare spazio alla realtà (quella che vediamo apparire in estemporanea) e quella che fuoriesce dai ricordi, dalla nostalgia, dalla memoria. L’assemblaggio risulta a tratti poco chiaro a discapito di una dissertazione articolata così dettagliata nel programma di sala dove lo studio dell’argomento diventa un saggio su cui soffermarsi con attenzione. Lo scarto sembra essere qui: lo studio e le sue intenzioni trovando parziale adesione nella messa in pratica quando l’esaltazione delle dinamiche psichiche che sono l’asse portante necessità di una maggiore precisione curata nei minimi particolari a partire dalla potenza espressiva dei corpi a cui viene chiesto di “recitare”, togliendo alla parola, al linguaggio verbale il suo tradizione ruolo da protagonista.
Visto al Teatro Akropolis di Genova il 15 marzo 2013
Clemente Tafuri David Beronio
TEATRO AKROPOLIS
Testimonianze ricerca azioni
Volume quarto
Akropolis Libri Le Mani
www.teatroakropolis.com