TRENTO – Una relazione madre-figlio ad alta disfunzionalità è quella che Stefano Cordella mette in scena, elaborando una drammaturgia incisiva e senza sbavature da due testi di Massimo Sgorbani, Le cose sottili dell’aria e Angelo della gravità. E incisiva e senza sbavature è la recitazione dei due protagonisti, Cinzia Spanò (la madre) e Francesco Errico (Mirko, il figlio), voci monologanti interconnesse nel racconto, ciascuna con un interlocutore “altro”: il defunto marito, per la madre, un ipotetico pubblico (o la propria coscienza), per il figlio. Su un divano imbustato in un imballo di cellophane, al centro della scena vuota – incomunicabilità e freddezza fattesi oggetto – Cinzia Spanò e Francesco Errico costruiscono due personaggi che riescono a farsi ascoltare quasi con empatia, nonostante le stilettate di violenza domestica, i rifiuti e l’immobilismo esistenziale che punteggiano le loro narrazioni. Eppure, in questo gioco di pensieri espressi che si alternano a comporre un quadro familiare fatto di solitudini incrociate, il poetico è tuttavia capace di insinuarsi nell’ordinario. Il flusso di coscienza dei protagonisti si avviluppa allo spettatore in un susseguirsi di considerazioni a tratti fluide, a tratti sincopate, inframmezzate dalla resa concreta delle emozioni, come bolle di fango, umori stagnanti che risalgono alla superficie, e da rigurgiti di consapevolezza.
Cinzia Spanò, perfettamente a suo agio pur in una parte che la invecchia, è un’attrice che sia concentrare il dramma in una tensione del corpo, in un piegarsi di labbra, per rilasciarlo poi in una vocalità ora asciutta, ora rabbiosamente ingolata, ora sgranata nel pianto. Francesco Errico modula invece un figlio dalla cadenza affannata e ipnotica, di cui sa rendere la tenerezza e l’irresponsabilità, la fragilità e la patologia latente.
Tra i rimpianti e le recriminazioni della madre – che rimbalzano tra le “pareti” di questa domesticità spoglia e, a suo modo, brutale, nella quale vive rinchiusa – e l’ingenuità patetica del figlio, con la televisione che li schiaffeggia di suoni e di luci, si snocciolano le loro interiorità represse, articolate in una simbiosi bizzarra. Un atteggiamento distanziante della figura materna, che tiene legato a sé il figlio, di cui non recide il cordone (“mi fa compagnia”), senza mai tuttavia prendersi seriamente carico della sua emotività, delle sue “stranezze” e del suo disagio psichico, che solo ha saputo, in passato, stigmatizzare in una disperata esplosione di violenza nei confronti del ragazzino. E il ricordo di quell’esplosione rivive ora nello strascico del senso di colpa, sottolineato da tagli di luce secchi, in una donna disillusa e diventata impermeabile alle tragedie del mondo, rinchiusa in un microcosmo di pulviscoli atmosferici nei quali “leggere” i fantasmi del suo passato.
“Vede” i morti, ma non “vede” Mirko, quel figlio bulimico che le sgrana affianco il suo racconto di solitudine, la solitudine abissale degli oppressi, una sofferenza animica ingabbiata in un corpo ingombrante e deriso e intessuta di stravolta religiosità e di patologico senso del peccato. E che, raccontandosi, ci invita a com-patire la sua inadeguatezza sociale, esplicitata in un repertorio comportamentale infantile e in una costante distorsione nell’interpretazione degli eventi reali di cui è testimone.
Sgorbani mette le mani nel magma oscuro della genitorialità, che si mescola e incide sulla vita dei figli in un karma confuso e senza soluzione di continuità, in urgenze relazionali che si affiancano e, a volte, collidono senza mai veramente risolversi. Qua e là il linguaggio si alleggerisce, per lasciare spazio a un riso amaro e, comunque, presago. Alla fine, questo dramma straziante ci insinua il dubbio che ogni relazione sia l’affannato tentativo di coprire una discrasia, un fragile equilibrismo tra il restare a galla, e sopravvivere alle proprie angosce, e l’afferrare il sentimento senza distruggerlo. L’“atto d’amore” del sottotitolo è esattamente ciò che qui manca, ma cui entrambi i personaggi anelano, senza mai rivolgere lo sguardo l’uno all’altro, in un continuo gioco di mediazioni e di occasioni perse, risucchiate dallo stridore mediatico.
Rancore, impotenza e paura soggiacciono a tutto il testo, tendendolo come corda di un arco pronto a scoccare il dramma finale. E, passato il cortocircuito esistenziale nel quale si conficca la tragica freccia, tutto torna e resta piccola vibrazione sulla superficie del vissuto del mondo. Siamo increspature, sembra volerci dire Cordella sulla scorta di Sgorbani, con i nostri prosaici e miserabili drammi quotidiani, siamo increspature in un etere percorso dal pulviscolo atmosferico che si fa visibile all’attraversamento della luce, in un’attimale – e metafisico – chiarore della coscienza: “Stamattina, vi vedo benissimo”.
LO SOFFIA IL CIELO – Un atto d’amore
Uno spettacolo tratto da “Angelo della gravità” e “Le cose sottili nell’aria” di Massimo Sgorbani; Regia e drammaturgia Stefano Cordella; con Cinzia Spanò e Francesco Errico; disegno luci e spazio scenico di Giuliano Almerighi; costumi Stefania Coretti; produzione TrentoSpettacoli; organizzazione Daniele Filosi.
Progetto vincitore del Premio Fantasio 2015
Visto al Teatro Sociale di Trento il 7 aprile 2017