MILANO – Dopo il caso “Fa’afafine” – spettacolo per l’infanzia a proposito della delicata tematica dell’identità di genere, nel 2017 Giuliano Scarpinato torna a parlare a un pubblico di bambini con un’altra scottante pagina di attualità. In “Alan e il Mare”, infatti, affronta la questione dei viaggi dei migranti con tutte le difficoltà – e, spesso, anche l’orrore – che li segnano. Occasione prossima è la sconvolgente foto del piccolo Alan Kurdi riconsegnato esanime dalle onde: rimbalzata dalle cronache, diventa protagonista della trasfigurazione onirica con cui il regista e autore del testo intende parlare non solo di migrazione. È un viaggio iniziatico, chissà se poi il reale processo evolutivo sia quello del bambino o del padre. Sopravvissuto alla distruzione del suo villaggio e scappato via mare col figlioletto, deve affrontare da solo il dolore, la disperazione e lo strazio della notte in cui ha perso anche il bambino, scivolatogli fra i flutti. Eppure c’è tutta la surreale trasfigurazione de “La vita è bella” di Benigni, nel delicato e suggestivo rapporto del piccolo Alan col suo papà, al punto che, anche qui, effettivo protagonista, punto di vista privilegiato e, in qualche modo, voce narrante in fondo è proprio l’adulto. Di certo riecheggia il ricordo di stampo collodiano, in questo fanciullino curioso e dalla fantasia incontenibile, che però qui finisce i suoi giorni non nella pancia della balena, ma addirittura nello sterminato ventre del Mare.
C’è un ché di Enea, nella ludica pietas con cui il padre teneramente cerca di preservare il figlioletto dall’orrore della realtà; c’è un ché del biblico Giona in Alan, anche se, al contrario del profetico predicatore, lui è il puro, il senza colpa per antonomasia al punto da intravvederci piuttosto una valenza messianica e sacrificale… accusatoria nei confronti della strategia politica occidentale? Probabilmente nulla di tutto ciò nelle esplicite intenzioni dell’autore, intento forse solo a sensibilizzare attraverso la scrittura di una favola contemporanea.
“Le favole non servono a spiegare ai bambini che i draghi esistono. Questo i bambini lo sanno benissimo da soli. Le favole servono a spiegare ai bambini che i draghi possono essere sconfitti”, scriveva Gilbert Keith Chesterton; ed è questo, quel che ciascuno vorrebbe poter dire liberamente, quando avesse a che fare con temi duri, scottanti o sfidanti e per quale fosse la ragione, l’esigenza di doverli trattare a misura di bambino. Questo fanno le favole: eleggono un eroe e un anti-eroe, tratteggiano una parabola, inciampano in conflitti e alla fine si risolvono in un sapienziale lieto fine. Visto così possiamo definire “Alan e il Mare” di Giuliano Scarpinato una favola? Decisamente sì, non solo perché ne rispetta i crismi, ma soprattutto perché, ancora una volta, sceglie un linguaggio e un registro capace di sfruttare la stessa lunghezza d’onda del suo pubblico di elezione. Complice anche la ben centellinata bravura di Michele Degirolamo/Alan e di Federico Brugnone/suo padre, la partitura scenica gioca fra linguaggi dati per acquisiti dai giovanissimi come quelli del video-gioco, qui in un’elaborazione basic e un po’ naïf come si addice al pubblico dei più piccini, o in stilizzazioni di comportamenti, i quali, con tono ameno spesso si trasformano in divertenti automatismi e pantomime mimiche stile comiche. Quasi la cifra di un fare teatro laboratoriale e d’altri tempi, in cui l’attore può confidare solo sulla sua abilità espressiva oltre che su pochissimi e ben scelti oggetti di scena, ma che all’improvviso tutto si accende di effetti speciali davvero sorprendenti e perfettamente il linea con gusto e linguaggio contemporaneo, come i contributi video (e video mapping) o i filmati di un cielo stellato mozzafiato, di quelli che certo non si vedono dalle finestre delle città, i fondali marini dalla flora e fauna lussureggiante e coloratissima come solo esistono ai tropici.
È il gioco prepotente della fantasia, forse la sola forza capace di tenerci in vita di fronte a prove così atroci e sfidanti. Lo racconta bene “Alan e il Mare in quell’abbraccio spasmodico, che avvinghia padre e figlio ad ingannar la traversata, mentre giocano a unire le stelle-puntini per inventare costellazioni improbabili e divertenti come quella della rana con le orecchie coniglie; lo raccontano con efficacia le surreali ed emozionalmente intense scene degli incontri padre/figlio in quel non-luogo, che se non è sogno, forse è un limbo più prossimo alla follia, come sarà costretto ad ammetterle a se stesso il padre, a un passo soltanto dal lasciarsene travolgere. Eppure, come si conviene, il tono della narrazione resta sempre pacato e in qualche modo tranquillizzante, nonostante non si rinunci ad affrontare tematiche forti. Sono la devastazione della guerra – in filigrana: “Domattina andiamo in gita e non a scuola, perché la tua scuola non c’è più!”, sbotta, a un certo punto, lo spaventato genitore -, la morte – addirittura quella di un bambino – e la disperazione di un padre consapevole di cogliere tutta l’insostenibile responsabilità anche nei confronti della moglie amata e ugualmente persa. Lo strozzinaggio della compravendita per assicurarsi un posto di fortuna su una delle tante carrette del mare – eppure alla commissione territoriale l’uomo avrebbe raccontato: “Mi sentivo fortunato, la barca era piccola, ma credevo che ce l’avremmo fatta.”; la depersonalizzante burocrazia dei centri di accoglienza, la pressione della stampa.
L’efficacissima l’immagine dei microfoni che calano sul malcapitato padre con una vis oppressoria tale da finire con lo schiacciarlo spalle a terra. In definitiva, la capacità resiliente di chi non si lascia comunque abbattere, nonostante tutto. Forse è in questo il lieto fine, se così possiamo definirlo, di questa favola, che non cede né alla lusinga di un miracoloso risveglio di Alan, né al consolatorio rifugiarsi del padre in quel mare di rimozione. “Non è questo il tuo posto”, gli sussurra il figlio-pesce – forse qui sì, dalla forte valenza messianica e freudianamente evolutiva, nella latente allusione amniotica a quel liquido caldo entro cui voler tornare a rifugiarsi, e il padre sarà così spronato a cercarsi il suo. “Un posto qualunque, purché si vedano bene le stelle”, – chiederà alla commissione. Nel frattanto un meraviglioso gioco teatrale fatto di corpi e bellissime le scene dello strenuo tentativo del padre di raggiungere e rieducare il figlio-pesce alla postura terrestre, anche se, come Orfeo, puntualmente si vedrà sgusciar via il suo sirenetto-Euridice -, di movimenti sospesi, evocativi, precisi e sincronici, quasi da teatro-danza, denotando una capacità evocativa emozionale lieve e sospesa, ma che non per questo rinuncia ad un più profondo livello semantico.
Visto il 20 aprile al Circolo Everest di Vimodrone, già sede di residenza della Compagnia.