MILANO – Inaugurato lo scorso anno in concomitanza col ponte del 2 giugno, Milano Off FIL Festival è tornato, dal 9 al 18 giugno 2017, con rinnovata voglia di esserci e di ribadire la specificità del proprio progetto. Giocando con l’assonanza con PIL (Prodotto Interno Lordo), ne ribalta i timori economistici nella ben augurale festosità di un neologistico FIL (Felicità Interna Lorda). Perché con la cultura (e con lo spettacolo) si mangia, slogan variamente declinato da molte iniziative degli ultimi anni, in questa Milano che, da bere, si sta accreditando sempre più come la capitale dello spettacolo dal vivo, la Mecca dell’ editoria e del Nuovo Salone del Libro, in cui il terziario che tira è sempre più legato a spazi che hanno a che fare con la cultura, il co-working . Così, la scommessa del direttore organizzativo Renato Lombardo e della direttrice artistica Francesca Romana Vitale resta quella di portare non solo una kermesse culturale multidisciplinare (dalla prosa, alla danza, dal teatro di figura alla clownerie, fino al teatro di strada, teatro danza e performance anche interattiva e per un solo spettatore) capace non solo di mischiare l’alto della Milano In col basso della Milano Off, ma anche di creare una rete in grado di coinvolgere un quartiere intero. Di più: se l’anno scorso il triduo di appuntamenti era contenuto alla sola zona Isola (quartiere in ascesa e luogo di una ri-urbanizzazione di prestigio, che, fra boschi verticali e skyline dai grattacieli mozzafiato, va delineandosi come capace di strappare la palma della movida ai Navighi e alla Nuova Darsena), quest’anno il progetto si fa più ambizioso. Vengono virtuosamente coinvolti spazi certo minori, in giro per il cordone anulare della città, ma proprio per questo a cui offrire l’opportunità di una visibilità maggiore.
Dal fratello d’oltralpe Avignone Off mutuano il piacere bulimico, l’horror vacui esplosivo e il contagio euforizzante di una cinquantina di spettacoli ripetuti – a orari differenti e nelle dislocate location – ininterrottamente per una settimana. Ma non mancano, pur nella perfettibilità di un progetto che è solo alla sua seconda edizione, la capacità imprenditoriale di saper coinvolgere partner privati come Unicredit e istituzionali (fra questi ultimi Comune di Milano e Regione Lombardia), oltre che fare rete con gli esercizi commerciali dell’Isola per provare a intessere un modo più a misura d’uomo di vivere un quartiere così carico di contraddizioni (fra nuovo che avanza e vecchio e popolare, che ancora si ostinano a resistere, dando luogo a un singolare cortocircuito visionario e visivo). E non manca neppure la capacità di connettersi fin da subito con realtà anche internazionali (dal già citato Avignone Off all’IN SCENA! Italian Theatre Festival di New York, oltre al Teatro Libero di Milano), quali palchi da offrire agli spettacoli scelti dal pubblico e da una giuria tecnica.
Due sezioni, quindi: Milano In, il 9 giugno, all’UniCredit Pavillon, nella futuristica e spettacolare piazza Gae Aulenti, animata da testimonial quali i comici Raul Cremona ed Enrico Bartolino, il jazzista Enrico Intra, Roberto Brivio, cofondatore de I Gufi, e il regista e drammaturgo Massimo Navone (da poco smesso il mandato di Direttore della Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi) e, dall’11 al 18, la scorpacciata di Milano Off con spettacoli dalle provenienze più disparate e compagnie provenienti da tutta Italia ma anche da Spagna, come “Revoluclown” dell’omonima compagnia di teatro circo e da Israele (“Stones” di Orto-da Theatre Group, ironico teatro visuale al gusto hiddish, passato già un paio di stagioni dal Piccolo Teatro di Milano). Oltre a questo, gli eventi collaterali e diffusi dell’Off dell’Off con presentazioni di libri ed altri eventi culturali.
Impossibile stilare un elenco degli spettacoli che si sono generosamente spesi in un’ininterrotta staffetta ideale, in una metropoli forse un po’ troppo dispersiva e impegnata (specie in certi orari infrasettimanali) per poter garantire un’adeguata copertura di pubblico. Stecca 3.0, Teatro Verdi, Teatro Libero di Milano, Teatro della Memoria, Isolacasateatro, Spazio Lambrate, Spazio DiLà, FE Fabbrica dell’Esperienza, Corte dei Miracoli, Teatro Linguaggi Creativi, Teatro Scala della Vita e Teatro del Borgo, questi i palcoscenici del Milano Off FIL Festival; presuntuoso pensare di spendere una parola su ogni spettacolo, anche se, curiosando fra le differenti proposte, ci è capitato di assistere ad alcuni.
Peccato non essere riusciti a partecipare all’Audio Video Memory Experience di Acquasumarte, passeggiata con cuffie per un solo spettatore nelle memorie del quartiere Isola, che sembra strizzare l’occhio a Remote Milano dei Rimini Protokoll, ma volutamente pensata per un singolo fruitore alla volta; così come anche altri erano i titoli che sembravano appetibili, da programma. Fra gli spettacoli visti, Stones, anzitutto, della compagnia di Tel Aviv ORTO-DA Theatre Group, il cui sottotitolo già allude, con ironia tutta hiddish: “What happens when bird feces awakens an entire monument of hero fighters?”. Se gli eroi risvegliati sono quelli di un enorme gruppo scultoreo effettivamente posto, nel 1946, all’ingresso del ghetto di Varsavia, a ricordo della rivolta degli ebrei al Terzo Reich (e curiosamente scolpito in quello stesso blocco, che il Führer aveva individuato in Svezia e originariamente scelto per un monumento che consacrasse il mai avvenuto trionfo del suo regime), il raffinato gioco di performance, mimica e ironia denuncia ben oltre le dinamiche delle deportazioni e dello sterminio degli Ebrei nei lager.
Con una sagacia che travalica i fatti tristemente noti e le circostanze della Seconda Guerra Mondiale, si ribalta in satira sulle nuove schiavitù auto imposte: scampati alle atrocità delle campi di sterminio, gli uomini contemporanei si trasformano in un gregge di impecoriti dalla tele dipendenza dai mass media. Lo fa in modo arguto, divertente, giocato, creando un onirico sinistro parallelismo fra Hitler e una divinità aerea e levitante, che, a somiglianza del brucaliffo di Alice nel Paese delle Meraviglie, sembra irretire e ipnotizzare non solo l’infante scampato alla tempesta e che ora piange, annoiato, e non vuol dormire. Sorprendono la densità dei movimenti dei performer-statue, che, da una marmosità e lentezza davvero degni di statue che si risveglino alla vita, vanno via via sciogliendosi in tratti sempre più disinvolti, fino al limite della clownerie e di omuncoli, che quasi non sembrano più a vere nulla a che fare con i fighters di quei giorni d’inferno. Drammaturgia e regia con piccoli, ma felici accorgimenti movimenti scenici, luci e allusioni mute riescono a creare un cortocircuito, in cui tutti ci sentiamo auto ironicamente chiamati in causa.
Un linguaggio del tutto analogo, fra performance e teatro danza, anche per Eoika di Vicari/Aloisio, che propongono tre confetti di bravura mimico/performativa formato teatro-corporeo adatto per un pubblico di ogni età. Brave, le due danzatrici, nel divertirci con personaggi improbabili – dall’altissima figura Olivia style formata dall’invisibile simbiosi delle due, a corpi, schiene, ginocchia, mani e braccia, che si trasformano in altro, in un tourbillon di personaggi sorprendenti e soluzioni divertenti, che mancano, però di una drammaturgia ben precisa e rischiano di esaurirsi in petits divertissements un po’ fini a se stessi. Sempre sul versante teatro ragazzi, e dal Teatro Verdi, ci spostiamo allo Spazio Lambrate, Occhio Pin di Rueda Teatro. Ironico ribaltamento della storia di Collodi, in cui però è il bambino ribelle ad essere trasformato in marionetta, via via, da un Garante dell’Ordine, quasi una Fatina prescrittiva, un po’ Dottore e un po’ Autorità preposta a far rispettare l’ordine costituito. Giocato sulla ripetizione/variazione di azioni sceniche che spesso prevedevano la compresenza dei quattro attori e da un chitarrista dal vivo, si snocciola in una narrazione dal sapore adolescenziale, che ancora sa del perbenismo di chi si attarda fra l’infanzia e i primi rigurgiti di rottura dei teen-ager. Il punto di vista è quello del ragazzino: suo, il desiderio inesauribile di fare le domande più curiose e indiscrete; suo, l’arrendersi di fronte a un mondo troppo inaridito e irregimentato per poter davvero aprire un dialogo, al di là del pur ammesso affetto verso un mondo comunque troppo ipocrita e senza fantasia. Idea interessante, ma lo spettacolo risulta forse ancora un po’ acerbo e legato a una messa in scena più attenta alla dimensione coreografica e recitativamente stereotipata.
E poi gli ultimi due spettacoli visti: Terra di Rosa di e con Tiziana Francesca Vaccaro e Ocean Terminal di Lioce/Vezzoli con quest’ultimo in scena e alla regia. In ambo i casi dei monologhi, i due personaggi realmente vissuti, contemporanei nostri e fra loro (se Rosa Balistreri, infatti, morì nel 1990, Piergiorgio Welby ottenne l’eutanasia solo sedici anni più tardi, nel 2006). Due spettacoli forti, sia per le tematiche (la vita in qualche modo straordinaria), che per i personaggi raccontati (due persone ordinarie, ma che vissero in modo appassionato e tenace, fino al parossismo di diventare spregiudicati precursori loro malgrado). Eppure due spettacoli differenti: se la generosità di Tiziana Francesca Vaccaro, infatti, la porta a una drammaturgia difficile, che indugia per buona parte dello spettacolo sugli anni più duri della vita di Rosa (raccontati fra candore e ironia, nel colore caldo e confidente del dialetto e di una lingua popolare fatta di saggezza e arguzia contadina) e che concede solo sbilanciati quadri sbrigativi alla sua vita “pubblica”, “engagée” e, in qualche modo di “rivincita”, Lioce/Vezzoli, invece, supportati da video e da quei contributi musicali registrati, che ci ci sarebbero aspettati di più nel racconto della biografia della cantante siciliana, mettono a punto una macchina energica ed euforizzante. Nessuno spazio è concesso al quel pietismo, che il celeberrimo video della lettera di Welby al Presidente della Repubblica (per perorare la propria causa del diritto all’eutanasia) facilmente avrebbe potuto evocare; al contrario, il giovane Welby è presentato come un diavolo ribelle, un artista sregolato, un uomo emotivamente fragile, distonica variazione di un bambino soffocato dall’enorme seno materno. Eppure niente affatto arrendevole. “Perdutamente innamorato della vita”, come avrebbe detto in quelle parole indirizzate a Napolitano, ci viene raccontato come da sempre avvinto in un silente corpo a corpo con la distrofia muscolare, quasi a spiegare, in parte, l’uso di quelle sostanze stupefacenti per altro verso consuetudine di molti della sua generazione. In scena solo uno schermo e un tavolaccio – a tratti vi compare sopra un lenzuolo – e la suggestione è lì, a portata di mano, eppure l’energica e generosa prova d’attore di Vezzoli (che se anche, a tratti, “recita”, specie all’inizio, secondo un modo tipico dell’attore d’accademia, ma che poi riesce a compensare con una performance, una mimica ed una spregiudicatezza tipica dell’attore consumato), lo fa arrivare forte e chiaro, il messaggio/bandiera: Welby uomo a tal punto vivo e vitale, da combattere, con la tenacia di una tigre a caccia, per il proprio diritto a una vita dignitosa. Messaggio analogo anche per Terra di Rosa, anche se qui un ritmo spesso troppo uguale a se stesso e delle trovate probabilmente insufficienti a fronte della mole di bruttezza, povertà, arretratezza, sopruso e bruttura evocate dai primi anni della vita di Rosa (e su chi la Vaccaro indugia), smorzano la portata del messaggio in una restituzione scenica sì curata e pensata, ma non sempre altrettanto variata e quindi vivace.
Visti nell’ambito del Festival Milano Off (9-18 giugno 2017)