SAN GIMIGNANO – Una città medievale dove le sue torri svettano sulla collina, talmente alte da vedersi anche a distanza. Sono verticali e creano un suggestivo gioco prospettico in grado di attrarre l’occhio umano rivolto verso “Orizzonti Verticali”: un giovane festival – pensato – per dare a San Gimignano (Siena) un’occasione per portare il teatro nelle sue piazze. Un luogo dove la terra ha tremato il nove agosto scorso, quando una serie di scosse telluriche hanno allarmato gli abitanti del Senese e nell’Empolese Valdelsa. Scosse di magnitudo 2,6 fino a raggiungere 3.4.
Il Comune ha fatto immediatamente chiudere i sotterranei della Casa di Boccaccio e Palazzo Pretorio. Turisti spaventati e molta apprensione senza però danni materiali rilevanti o alle persone. Un evento che si può ascrivere alla cronaca giornalistica e non certo di critica teatrale ma prima di affrontare “Orizzonti Verticali”: Arti sceniche in cantiere- Generazioni a confronto, (seconda edizione), che si è tenuto a San Gimignano dal 16 al 20 luglio scorso 2014, va segnalato un richiamo di natura economica per una città dove il turismo è fonte primario di guadagno per i commercianti. Per chi chiede un scaffè decaffeinato al bar e una spremuta d’arancio il costo è esorbitante, manco fossimo all’Harry Bar di Venezia.
Prezzi che fanno pensare come sia facile lucrare sul turista straniero di passaggio e una pessima pubblicità. Detto questo il festival è occasione per un’attenta riflessione su come il teatro e la cultura nel suo divenire, può contribuire sia a far crescere il luogo fisico che lo ospita sia chi lo produce. Motivo in più per far crescere un pubblico e fornire gli strumenti per diventare un osservatore privilegiato. Orizzonti Verticali non ha ancora una sua identità ben chiara e la direzione artistica dovrà negli anni a venire, trovare una sua personalità capace di richiamare sia spettatori che operatori dell’informazione. Il Festival si trova intorno a sé “concorrenti” ben più strutturati e “anziani” per età ed esperienza: Volterrateatro, Castiglioncello, Pontedera e Lari, fino a raggiungere quelli più lontani come Sansepolcro.
La formula scelta a San Gimignano (di cui il direttore artistico è Tuccio Guicciardini) è quella di unire riflesssioni e dibattiti all’evento teatrale vero e proprio. Lo scambio dialettico e di pensiero serve innanzitutto a confrontarsi per trovare delle connessioni tra chi il teatro lo fa e lo pratica e chi, come nel caso del critico, venga chiamato per dare un suo contributo – non solo giudicante – ma di affiancamento al lavoro artistico. La contemporanità al giorno d’oggi necessita di un lavoro dove i vari ruoli siano in qualche modo, anche sinergici, non contrapposti. Il teatro nel luogo e contenitore in cui opera deve diventare fertile per far germogliare e crescere una vera cultura della visione non più solo fruizione e intrattenimento. Un cambiamento dovuto alle modificazioni della scena, sempre più improntate a temi dove è richiesto un impegno sociale civile in quanto anche politico, nel lavoro dell’artista. Lo spettacolo è a supporto di un continuo richiamo alla discussione critica in una società sempre più superficiale e distratta. Le conversazioni che si tengono durante il festival vanno in questa direzione e creano sinergie tra nel tentativo di definire un pensiero comune. Carlo Infante nel suo Radio Walk Show, attraverso le vie e dentro le torri. Parole in profondità e chiamate anche “armate”, rivolte verso il cielo.
Attraverso imput dettati anche da parole chiave da poi diffondere nella rete. Il fare teatro passa anche attraverso un sistema dialettico dove sistematizzare alcuni punti focali, ancora non depositati e sedimentati. In uno dei dibattititi dove sono intervenuti artisti e critici, si è parlato del perché esiste un’urgenza di andare in scena. Teatro come una necessità di “consolazione”,- interrogativo a cui non si è giunti ad una risposta esauriente – di un’urgenza nell’affermare un’esistenza sociale e culturale altrimenti (spesso) carente altrove. Senza farne della demagogia o un discorso retorico l’essere “vivi” teatralmente permette un’identità che si va ad affermare. Teatro come ricerca di una reale possibilità di appartenenza al mondo. Anche nel settore della critica esiste un bisogno di affermazione rispetto alla sempre più latitanza nei giornali di carta dove gli spazi per recensire sono divenuti negli anni sempre più esigui. Il web ha preso possesso di questo vuoto ma soffre ancora in parte, almeno, della sindrome del figlio di un dio minore. Il dibattito condotto da Carlo Infante assumeva anche il ruolo di confronto critico dove lo scopo era quello di testimoniare esperienze portate a conoscenza in cui si sono incrociate le testimonianze derivanti dai movimenti di coscienza collettiva risalenti agli anni ’60 e ’70, ricordando – ancora una volta – il “Manifesto d’Ivrea” del 1967 di cui Roberto Guicciardini (padre di Tuccio) regista, è stato uno dei promotori.
Un documento che dava impulso per aprire un confronto con il chi oggi si impegna per trovare una sua collocazione all’interno di una società sempre più in difficoltà, poco incline a tracciare una rotta per le nuove generazioni. I depositari di conoscenze ed esperienze come lo sono stati i maestri della scena e gli intellettuali critici non hanno saputo o potuto lasciare un’eredità sostanziale a chi ora cerca di ripercorrere con grande fatica le loro orme, o smarcandosi per un bisogno di un’identità più soggettiva. Il passaggio del testimone. Da parte delle nuove generazioni non c’è però una necessità impellente di ereditare un sapere del pasato preferendo indagare un presente che fa fatica ad imporsi sulla scena. Un divario generazionale su cui conviene ancora riflettere alla luce di una produzione teatrale non sempre in grado di convincere per mancanza di una drammaturgia capace di affrontare la scena con una sufficiente determinazione. Il teatro e le sue emanazioni trovano in questo festival una ricerca finalizzata a lasciare un’impronta. Orizzonti Verticali può assumere nel corso degli anni futuri, una strutturazione sempre più organica. Le premesse ci sono tutte e sono state esplicitate nell’introduzione al programma: «Il filo conduttore è l’incontro-scontro generazionale.
La carenza di un passaggio di testimone “naturale” è uno dei problemi della maturazione dei giovani artisti. L’intento è riannodare i fili tra generazioni che sembrano lontane, senza connessioni, impegno che dovrà trovare maggiore respiro riuscendo a far incontrare sia i giovani artisti con le “vecchie guardie” del teatro e lo scambio tra generazioni nuove dedite alla cultura e alla trasmissione del pensiero critico con coloro che sono stati i predecessori. Sul versante teatrale uno dei momenti più emozionanti del festival è stato sicuramente “Itinerario nel meraviglioso” un ricordo di un intellettuale troppo poco ricordato e valorizzato: Angelo Maria Ripellino (Palermo 1923 – Roma 1978), traduttore, poeta e slavista italiano. È stato professore di Letteratura russa e di Letteratura ceca all’Università di Roma e critico dell’«Espresso». Il primo a presentare in Italia le poesie di Borís Pasternàk Tra le sue opere ha scritto Storia della poesia ceca contemporanea (1950), Poesia russa del Novecento (1954),Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia (Einaudi, Torino 1959), Poesie di Chlébnikov (ivi 1968), Il trucco e l’anima. I maestri della regia del teatro russo del Novecento, e Praga magica. Teatro e requiem (1973), che gli valse il Premio Libro dell’anno. Le sue poesie sono pubblicate in Poesie prime e ultime (Aragno 2006) e Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde (Einaudi 2007).
Dedicato alla poesie e alla prosa di Ripellino, Laura e Alessandro Fo hanno dato vita ad una rievocazione intessuta di testimonianze audio video e letture recitate con passione ed enfasi da Laura Fo che firma anche la regia. Un montaggio sapiente di voci e brani che ripercorrono la storia italiana di chi l’ha attraversata con la capacità di percepire la bellezza e la serietà di studioso. Un evento a chiusura del Festival ideato nell’ambito del progetto espositivo Teatro Immaginario. Gli interventi letti erano di Alessandro Fo dell’Università di Siena, curatore di molte pubblicazioni di Ripellino. Il montaggio video curato da Laura Fo e Stefano Caprioli e in video (concessi dalla Teche Rai) si sono potute ascoltare le voci di Virgilio Zernitz, Sebastiano Tringali, lo stesso Angelo Maria Ripellino.
Il teatro, quello recitato da attori diretti da un regista vedeva in Fulvio Cauteruccio un protagonista del cartellone di Orizzonti Verticali con “Mi chiamo Dino…sono elettrico” per la regia di Tuccio Guicciardini, insieme a Laura Bandinoni. La scelta di rappresentarlo in un chiostro di un ex carcere ospitato a sua volta in un edificio religioso nel passato. Basato sulla biografia umana e artistica di Dino Campana, un poeta sofferente di disturbi psichici, la soluzione drammaturgica e registica costringe l’attore a comprimersi in una recitazione che diventa lacerante, sovraccarica nel suo agire fisico e verbale. Lo spazio diventa soffocante e claustrofobico a scapito dell’intensità recitativa dell’attore che si esprime con generosità. Si percepisce come una frenetica ricerca per ricreare quell’universo alienato e dissociato di cui soffriva l’artista, a scapito di una poetica che avrebbe dovuto sondare l’animo tormentato di quest’uomo con un registro narrativo in grado di suggestionare il pubblico senza un’impatto cosi irruente. Il rischio che enfatizzando questa carica emotiva e il portato della sofferenza insita nella vicenda descritta diventi a tratti paradossale.
Dino Campana è stato un uomo incapace di adattarsi alla normalità e la sua indole stravagante lo portò ad avere spesso con la polizia quanto con frequenti interventi psichiatrici. Il poeta espresse la sua malattia definita un “male oscuro” con continue fughe all’estero seguite da ricoveri in manicomio. Portare sulla scena una vita così tormentata è un’operazione altamente difficile nel cercare di restituire l’arte e il talento inquieto di un uomo che non fu capito dai suoi contemporanei. Nel solco della tradizione lo spettacolo “ Monsieur Monsieur” di Micha van Hocke, un classico del suo repertorio che non dimostra cedimenti per la classe e l’eleganza dei suoi danzatori, artisti ecclettici. Risale al 1981 la creazione ispirata ad una raccolta di poesie di Jean Tardieu dal titolo “Le fleuve chaché”. Un lavoro basato sull’impegno e la professionalità dimostrata nella sua interezza scenica e artistica.
Singolare il lavoro della Clinica Mammut con il loro Melaconie in dedica a Pier Paolo Pasolini (Melanconia1_Lucia/ Del sordo rumore delle dita) per la regia di Salvo Lombardo, testo di Alessandria di Lernia. Un progetto che si colloca nell’alveo di una performance site -specific adatto ad una rappresentazione non prettamente teatrale. La drammaturgia si fa carico di dialogare con la poetica pasoliniana. Minimalista nella sua composizione la narrazione viene a crearsi attraverso citazioni illustri tratte dalla cinematografia del regista. I performer scelgono una liturgia dove il lirismo si eleva ad una elegia della parola che risuona come un canto nostalgico. Una giovane compagnia dedicata alla ricerca di una drammaturgia che sia anche analisi dove dare un senso all’esistenza stessa di una vita che ci procura sentimenti così contrastanti. Una creazione originale che potrà essere sviluppata ulteriormente dando i suoi frutti. Il gruppo si distingue per la serietà nella ricerca filologica e culturale.