SAN LEUCIO (Caserta) – Il sogno di chi ha rincorso per tutta la vita un ideale che a guardar bene è un’utopia: quella che ti fa credere ad un mondo migliore, alla rivoluzione di due esseri umani, un uomo e una donna, un sindacalista e un’operaia. Illusi nel cercare di emergere da una vita in cui si sentono confinati e privati di quella libertà capace di offrire loro, quell’emancipazione sociale, tanto da non accorgersi come: “Il potere mette in atto una mutazione antropologica, l’uomo è convinto di restare lo stesso e di credere ancora nelle sue idee, ma in realtà non si accorge di essere passato dall’altra parte – spiega Alberto Astorri nelle note di regia de Il Sogno dell’arrostito – e gli orizzonti si chiudono sempre di più. L’uomo, facendo così, finisce nel buio”.
E il buio è anche l’inizio della rappresentazione teatrale di Paola Tintinelli e Andrea Astorri, vista in prima nazionale all’Officina Teatro a San Leucio (Comune di Caserta). Non a caso, lo spettacolo assumeva ancor più un significato sociologico, vista l’ubicazione e il contesto territoriale in cui è presente una piccola quanto feconda realtà culturale artistica, diretta da Michele Pagano e Maria Macrì, impegnati nel promuovere un teatro, non solo di ricerca, ma anche, e soprattutto, occasione di formazione educativa e culturale, offerta alle nuove generazioni e private di ogni opportunità di aggregazione sociale e culturale, vista la poca attenzione delle istituzioni pubbliche nei loro confronti. Il “sogno” qui si trasforma in realtà grazie alla costanza di poche persone che lavorano giorno e notte, in uno spazio condiviso con una vera officina meccanica per la riparazione d’auto, posta accanto alla sala teatrale, dove affluiscono non solo gli spettatori ma anche un centinaio di giovani iscritti ai laboratori di teatro. Astorri e Tintinelli non potevano trovare un luogo migliore per raccontare con la forza delle parole e di pochi elementi scenici, una storia che potrebbe essere quella di migliaia di operai che lavorano nelle fabbriche, di uomini alla catena di montaggio, di gente che lotta per i propri e altrui diritti sindacali.
Tutto inizia con una scena minimalista che pare un prologo surreale, quasi estraniante, di una forza visiva come potrebbe essere quella di un film muto. L’azione è mimata per rappresentare come il sole si possa raffigurare con la fiammella di un accendino, la pioggia con l’acqua di una bottiglietta versata per terra, la musica che fa da colonna sonora la si ascolta da un telefono cellulare, fino alla proiezione di immagini familiari risalenti ai loro anni ’70. Non è casuale: i due autori e interpreti raccontano momenti di vita quotidiana del passato, quasi idilliaci, domestici, che si trasformano quasi per una strana traslazione dalla realtà oggettiva, a qualcosa di amaro e malinconico. La nostalgia di un tempo che fu. L’uomo sindacalista e l’operaia parlano ad una società in disfacimento. Lui come se fosse ad un comizio, con la forza della parola. Lei, anche con i suoni riprodotti da strumenti scenici mutuati per farne attrezzi da lavoro. Si assiste ad un progressivo scollamento tra l’urgenza della parola stessa declamata, enfatizzata, resa con foga energica, e il contesto in cui si deposita: la realtà circostante fatta di sudore e fatica, il rumore ossessivo del ferro battuto che satura l’udito e si sovrappone alla voce dell’uomo. Tutto sembra annullarsi in una baraonda caotica di parole, sentimenti, emozioni contrastanti, rabbia, speranze disattese e svanite.
Più i due si cercano e si confrontano e più si allontanano. Rimbalza su chi assiste e ascolta, la frase che pare un’esclamazione, quasi un monito: “ Occorre scavare la membrana che separa la vita dai discorsi della vita”. Una barriera che si viene a creare tra chi voleva cambiare la vita stessa, la loro, così alienata e deprivata di sentimenti reali (anche d’amore) e l’impotenza di non riuscirci, dove l’illusorio immaginario di una felicità ormai perduta, viene “arrostita” – sulla graticola così chiamata dagli autori per rendere visibile un concetto – che ai nostri giorni appare sempre più verosimile, se pensiamo alla nostra di esistenza quotidiana. Il “Sogno” di chi ha cercato per tutta la vita di restare a galla e non trova nel suo presente un salvagente. Il Sogno di un arrostito è la rappresentazione plastica di un teatro capace di esprimersi con poco, dove basta la presenza fisica ed espressiva degli attori, e la capacità di suggestionare attraverso un amacord rievocativo, da cui esce un ritratto impietoso di un’Italia che ha smarrito la sua identità.
Il sogno dell’arrostito
prima nazionale
di e con Alberto Astorri e Paola Tintinelli
collaborazione drammaturgica di Rita Frongia
Produzione Astorri e Tintinelli/con ERT- Officina Teatro (CE)- Armunia Castiglioncello (LI)
Visto il 21 novembre 2015 al Teatro Officina di San Leucio (CE)