RUMOR(S)CENA – TORINO – L’amore come variabile incontrollabile e talora impazzita della vita? Oppure la vita come una lente che rifrange e dissocia l’amore, l’energia surgiva, essenziale e platonicamente motrice dell’intera umanità, e che, una volta così depotenziata, la indirizza e imprigiona in istituti e istituzioni, socialmente mediate all’interno di un imperante patriarcato? Sottotraccia, a produrre la tipica incapacità dell’umano a individuarsi e soffermarsi nel suo stesso desiderio, quella invidia che, come ci suggerisce Renè Girad, ci porta a volere sempre quello che l’altro, che è il nostro specchio, desidera, per poi abbandonarlo quando, per qualunque circostanza, non è più da lui desiderato, in una continua oscillazione.
Lo stesso Girard che, tra l’altro, significativamente individuava nel padre di Ermia, che si oppone alla diversa scelta della figlia, un ruolo (quello di mediatore sociale) piuttosto che una articolazione psicologica (la gelosia), un ruolo la cui crisi esprime quella che lui chiama la crisi più generale del “degree”, dell’ordine sociale. Shakespeare porta dunque queste domande dentro “il bosco di Atene”, cioè dentro il palcoscenico, preservando forse, ma andando spesso oltre, ogni psicoanalitica e per lui inattuale considerazione, dentro il suo palcoscenico che non imita aristotelicamente, ma altrettanto aristotelicamente è capace di crearlo il reale. Lo fa raccontando una fiaba occasionalmente celebrativa che gli è stata, dicono le cronache, probabilmente commissionata per un importante matrimonio a corte, ma facendo come di consueto precipitare nella narrazione e nella sua occasione scenica il mondo, o almeno quella parte del mondo che in quel momento gli è necessario per dare corpo alla sua creazione, qualunque sia la committenza che la produce. Attento ai desideri del committente ma esteticamente libero di piegarli alla sua intuizione artistica, lirica o epica che sia.
Il “Sogno” shakespaeariano è diventato così una suggestione diffusa e universale che sembra trascendere il teatro, ma che rimane teatro, impuro come solo il teatro è, con le radici ben salde su quelle tavole di legno dove abbiamo l’opportunità di comprendere ciò che accade e ci accade, se solo fossimo capaci di approfittarne. Valerio Binasco in questa sua versione della commedia coglie molto bene tutto ciò, ed è dunque capace di far emergere, direi quasi ‘maturare’, molti degli elementi di interiorità e anche di socialità storica che circolano, oltremodo solubili ma mai dissolti, in questo attraente fiume scenico, mantenendone ritmi e risonanze, fiabesche e tragiche insieme, ma imprigionando nella loro rete i temi della sensibilità e del linguaggio dell’oggi, che anziché tradire confermano con efficacia il tocco del Bardo.
Basti ricordare, ad esempio, la lingua che innerva e dà voce al contrasto tra i quattro amanti, Ermia, Lisandro, Elena e Demetrio, e la violenza che porta con sé e canalizza fino a suggerire le cronache fin troppo frequenti degli odierni femminicidi. Ma anche l’efficacia figurativa della farsa incorporata nella commedia, un teatro nel teatro spesso utilizzato da Shakespeare per introdurre elementi di nuova comprensione al discorso scenico e che, qui, sono la via per rinnovare contrapposizioni culturali e anche economiche molto attuali, ma altresì per ricordare cosa è in fondo essere attori, cosa è l’essere degli attori.
La favola risolve in scena, recupera anche la morte alla sua vita contingente, ma è teatro che come il gigante Anteo ha lì la sua forza. Tenendo fermo quel confine, la messa in scena può avere una efficacia oltre la contingenza, e così sfiorare l’irriducibile e l’essenziale dell’anima degli uomini e delle donne, che folletti, fate, maghi e regine delle fate scoperchiano, osservano e perdonano con la dolcezza di una risata.
Significante al riguardo la scelta di far coincidere gli attori che interpretanto Teseo e Oberon (Valerio Binasco), Ippolita e Titania (Olivia Manescalchi) e infine Filostrato e Puck (Francesco Russo) ad indicare appunto che umanità e sogno sono due specchi che, all’insegna del già citato Girard, si fronteggiano e così si sdoppiano e riconoscono.
Anche in questo una prova di teatro non comune, un raccontare di sé e dunque di noi tra arte e artigianto scenico, scenografie e macchinari che finalmente tornano ad animare un palcoscenico che sembrava sempre più chiuso in sé stesso e troppo autoreferente. Non si tratta di classici o di contemporanei, si tratta di amare il teatro e di farlo bene, come ci sembra sia successo.
Di William Shakespeare. Traduzione di Valerio Binasco con la collaborazione di Antonio Calenda. Regia e adattamento Valerio Binasco, con (in ordine alfabetico): Davide Antenucci, Valerio Binasco, Fabrizio Costella, Michele Di Mauro, Giordana Faggiano, Lorenzo Frediani, Olivia Manescalchi, Daniele Marmi, Nicola Pannelli, Cristina Parku, Greta Petronillo, Franco Ravera, Dalila Reas, Francesco Russo, Letizia Russo, Michele Schiano di Cola, Valentina Spaletta Tavella,
scene e luci Nicolas Bovey, costumi Alessio Rosati, musiche Paolo Spaccamonti, consulenza vocale Carlo Pavese, assistente regia Giulia Odetto.
Una produzione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale. Al teatro Carignano di Torino dal 14 dicembre al 16 gennaio 2022, con repliche dunque finalmente da vero teatro stabile. Visto il 16 dicembre, un teatro pieno, e in questo confortante, molti applausi e molte chiamate.