RUMOR(S)CENA – CINEMA – Lontana da noi quasi novant’anni, la filmografia di Hollywood antecedente all’uso del codice di censura Hays ci offre ancora squisiti “doni”. Fra questi, per finezza visiva e audacia tematica, 13 donne (‘Thirteen Women’; 1932) di George Archainbaud (prolifico regista parigino, naturalizzato americano) occupa un posto a sé. In virtù del fatto che l’universo muliebre, con sempre maggior coscienza, impugna oggi le leve del potere politico e orienta i principali dibattiti teorici, potrebbe interessare alle lettrici, specie le più giovani, riscoprire uno dei primissimi esperimenti di film interamente concepito “nel segno di Venere” (sottogenere che prenderà il nome di “Women’s Picture”): in esso si scorge un’accusa (appena tracciata, ma all’epoca non era scontato) verso i pregiudizi che circondavano le donne, per non parlare delle più indipendenti, riflesso di una società in nervoso mutamento; della pellicola colpiscono il ritmo teso, le psicologie tutt’ora credibili e così l’esaltazione (seppur in un contesto delittuoso) dell’ingegno e tenacia femminili; una malinconica riflessione sul “bisogno di soprannaturale” annidato nella media e alta borghesia impreziosisce poi l’insieme, facendo di 13 donne il frutto più maturo – e al contempo la critica, neanche troppo velata – di due filoni coevi, abilmente amalgamati nella storia: quello dei “geni del male” venuti dall’Estremo Oriente – si vedano Il mago Chandu (William C. Menzies; ‘32) e il successivo La maschera di Fu Manchu (Brabin & Vidor; ‘32) – e delle “frodi spirituali” dove ciarlatani, muniti di turbante e sfera di cristallo, derubavano abbienti vedove speranzose di comunicare con l’Aldilà; ciò caratterizzava titoli come Sinister Hands (Armand Schaefer; ‘32) o il “famigerato” Gli affaristi della religione (Frank O’Connor; ‘38), nel quale, fra l’altro, fece una breve comparsa Bess Houdini, moglie del grande fantasista.
Tratto dall’omonimo romanzo di Tiffany Thayer, ampiamente sgravato di situazioni (incluso un episodio di amor saffico) e personaggi, il film di Archainbaud segue, appunto, il caso di tredici (se ne vedono, in verità, solo dieci) “brave” signore del nord della California, fraternamente legate fin dagli anni del St. Alban’s College, le quali, per pura moda, intrattengono da mesi un rapporto di penna con Yogadachi (C. Henry Gordon), bramino “da operetta” prodigo di unguenti e oroscopi. Le ultime sue lettere annunciano, però, un destino mortale che si compirà per tre componenti del gruppo e così per chi sta loro accanto: la trapezista June (Mary Duncan) impazzisce dopo aver fatto cadere sua sorella May (Harriet Hagman) nel vuoto durante un’esibizione circense; Hazel (la ventiquattrenne Peg Entwistle, suicidatasi al termine delle riprese) cede all’impulso di pugnalare il consorte ed Helen (Kay Johnson), di portarsi una pistola alla tempia. Oltre che offuscare mentalmente Yogadachi, a contraffare i responsi divinatori è stata Ursula György (una Myrna Loy d’inquietante bellezza): schernita e discriminata dalle allieve del St. Alban per via del sangue misto (slavo e giavanese) ancorché nobile per metà, Ursula vuole ora la sua vendetta, eliminando una alla volta le vessatrici di un tempo. La nostra ha, però, in mente ben altro per Laura (Irene Dunne), la più avveduta della congrega e quindi, forse, la peggio di tutte: neutralizzarne l’amante e lo ‘chauffeur’ per mettere le mani sul figliolino Bobby (Wally Albright)…
Come scrivono Dawn Keetley e Gwen Hofmann in un appassionato saggio breve (University of Illinois; 2016), 13 donne “[…] non è mai stato oggetto di un’attenta analisi benché compaia in numerose antologie del cinema horror”: uscita appena un anno dopo Dracula di Browning e Frankenstein di Whale, l’opera di Archainbaud incorpora, infatti, temi peculiari del genere (es. il lato oscuro dell’astrologia, il controllo psichico), sebbene alla fine tratteggi – e qui risiede, secondo il critico Joaquín Vallet Rodrigo, la sua originalità – un “mostro” assai reale, tremendamente umano per impulsi e scopi, anticipando in minima parte quell’orrore domestico, impalpabile, “paranoico” che irromperà sui grandi schermi solo nei tardi anni Sessanta. Nondimeno, la sensibilità dell’odierno spettatore viene toccata soprattutto da un dialogo:
Laura: «Che mai ti hanno fatto per indurire così il tuo cuore?»
Ursula: «Ebbene la razza bianca, così umana, mi domanda finalmente questo! Quando avevo dodici anni, dei marinai… (pausa) Ma lo capisci che significa essere una mezzosangue, una meticcia in un mondo dominato da bianchi? Se sei un uomo, diverrai un “Kuli” (equivalente indiano del portatore di ‘risciò’; N.d.R.) ma se sei una donna… basta un po’ di immaginazione (pausa). La metà bianca di me non faceva che supplicare per quel favore, quel rispetto riservato a donne come te. Divenire bianca era la sola via di scampo: una meta ormai vicina, fino a che tu… tu e i tuoi ‘Kappa’ (il termine designa un esclusivo club universitario ma è curioso, e forse voluto, il richiamo all’omonimo demone fluviale nipponico, creatura bugiarda, capricciosa, sovente brutale; N.d.R.) non mi avete boicottato. Sei anni da schiava, guadagnando abbastanza da finire la scuola e farmi accettare come bianca… ma no… non una volta mi avete concesso di oltrepassare la linea del colore della pelle (corsivo mio; N.d.R.)»
Laura: «Cerca di capire, eravamo giovani»
Spiegazione eloquente… Sempre Keetley e Hofmann ricordano, a proposito, il folle (col senno di poi) caso dello scrittore Bhagat Singh Thind (1892-1927) ritenuto dalla Corte Suprema degli Stati Uniti non idoneo alla cittadinanza – anche se indo-asiatico e perciò classificabile come ariano (o caucasico) secondo le teorie razziali dominanti – poiché nella percezione dell’uomo bianco comune egli non sarebbe mai stato accettato come un suo pari. La sentenza Thind (1923) portò così alla de-naturalizzazione di una cinquantina di indo-asiatici che in precedenza richiesero e ottennero la cittadinanza: l’accaduto fornisce un intertesto decisivo per 13 donne, la cui protagonista sacrifica, appunto, ogni cosa pur di diventare “bianca”. Il mortificante itinerario di “vaglio” etnico intrapreso dal personaggio “[…] si rifà con tutta evidenza a quello degli immigrati indiani degli anni Venti, i quali contarono sull’essere (già) bianchi (in virtù delle suddette categorie razziali di vecchia data) affinché il popolo americano li riconoscesse pienamente (e legittimamente) come tali”. Ma la Corte Suprema negò loro il diritto – se così si può chiamare – alla “bianchitudine”, né più né meno come le educande del St. Alban lo negarono alla meticcia Ursula György.
E qui scende in campo la principale forza del genere horror: scardinare, cioè, ogni falsa certezza sociale e culturale. Vediamo Ursula, la Forestiera Irretita, nobile per i suoi conterranei ma men che umana per il Nuovo Mondo, “ridestarsi” in forma di Nemesi: essa non dimentica né perdona; in mille modi sa annientare o gettare ai suoi piedi i meschini beneficiari di una potenza ricca, ma che già si sgretola al suo interno, come quella statunitense. La suaccennata affinità con Dracula non è arbitraria: entrambi, l’esule principessa slavo-giavanese e il proteiforme conte carpatico, incarnano, pur con diverse sfumature, la crudeltà senza tempo dell’Oriente. Un Oriente “inattendibile”, si capisce: primordiale, ferino. Un “mattino del mondo” dai labili contorni, che popola le fantasie più recondite, in società taciute, dell’Uomo Bianco. Si conferma quanto detto nella premessa riguardo alla duplice anima di 13 donne: se da un lato il film paga un dazio su quei noti, grossolani filoni dall’altro ne fa letteralmente a pezzettini l’immaginario esotista.
Le antiche civiltà dell’Oriente (Cina, Giappone e, nel caso in esame, l’India) non rappresentano più, dunque, un’alternativa, l’ultima possibile, alla cultura borghese “ordinatrice”, speculativa, come l’arte della seconda metà del secolo decimonono sussurrava: nel cinema popolare americano degli anni Trenta la loro apparente “innocenza” muta, all’opposto, in arcaica furia. Coloro i quali la impersonano sono, come Ursula György, la prova vivente di un confronto culturale mai realmente tentato, di gravi colpe dall’Occidente mai del tutto espiate; emissari di forze oltreumane che nell’età moderna e contemporanea sono state negate ed espulse, per poi far ritorno dietro maschere torve e incollerite (spesso sfruttate e “caricate” dai racconti di paura).Forse è anche per questa dolorosa acredine che 13 donne di George Archainbaud non ebbe alcun successo: per fortuna, grazie ad una recente ristampa in DVD per i tipi di ‘Vértice Cine’ (Madrid; 2012), possiamo valutare ed apprezzare l’opera come merita.
Degni, infine, di nota i giochi chiaroscurali della fotografia di Leo Tover (L’ereditiera) e le eleganti scenografie di Carroll Clark (La pericolosa partita).