ANDRIA – TRANI – BARLETTA – “Così proseguo in questo viaggio in questa Puglia infinita, e inizio inevitabilmente a ripensare alla vita, non ho la forza di soffocare i pensieri, chi sa se accelerando tornano un po’ più leggeri” (Daniele Silvestri, “Me fece male a chepa”).
Ricomincio da tre. Ogni volta diversa, la sfida, l’andare, la radura, lo spazio da percorrere, i volti da incrociare, la fatica da percuotere. Chi si ferma è perduto. Si parte con il sorriso si arriva con il sorriso. Semmai più scarno, più scalfito, più sudato, ma vero, pieno, sincero. Che per fare la strada non servono tanti giri di parole. Serve la poesia dei piedi, la dialettica delle ginocchia, i passi cadenzati di parole anche solamente pensate, tra sé e sé, al compagno occasionale di gomito a gomito, il ciglio dell’asfalto, i campi a raccolta a chiamare le energie, le zolle ispide e tortuose, i guardrail avvizziti ed appuntiti. Strada facendo.
E’ il terzo cammino. Il terzo Pellegrinaggio. Artusiano. Così ci siamo chiamati. Dopo la Romagna, dopo le Langhe cuneesi, oggi la Puglia. Precisamente la Murgia. Se dividiamo ipoteticamente in tre il tacco italico viene fuori il Tavoliere, il Salento e, nel bel mezzo del cammin, appunto la Murgia. Terreno ospitale, verde, dove spiccano in questi mesi immense distese di papaveri rossi accesi, come drappi appese alle finestre quando le ragazze diventavano donne. Provincia chiamata BAT, che sa di fumetto, di supereroe, di creatura alata notturna a proteggerci. Centoventi chilometri in cinque tappe. Sembrano pochi. Chi ci ha lasciato un’anca, chi soltanto vesciche e tendini, chi le scarpe. Sali minerali distribuiti gocciolanti sulle stradine sterrate, sentire ogni sassolino sotto l’arcata, le piccole nubi di polvere alzarsi, i cani randagi a contemplarci, grossi e placidi, sotto ulivi secolari.
Al Bano è lontanissimo, così come Lino Banfi, dei Negramaro nemmeno l’ombra. Camminare: il gesto è antico, sa di monaci, di frati, ma anche di fughe, di ritrovi, di sconfitte, di rinunce, di religione ma anche di spiritualità. Cammino fuori e dentro. Perdi il conto dei passi, dieci, cento, mille, migliaia, e nella reiterazione si apre l’infinito. Il paesaggio attorno sublima l’essenza, si perdono i contorni, delle braccia, delle gambe, sembra di sentire solo il Sole attorno agli zigomi inondare le guance e giù fin dentro le ossa. Più leggeri, non si sente più il peso. Non fermarti, non appoggiarti, non posarti, non decelerare. Un passo avanti all’altro.
E seguendo una linea che non esiste sulle cartine, dal confine con la Basilicata fino al salmastro del mare, sorseggiando quel cordolo immaginifico per toccare le onde dell’Adriatico, fino a Barletta nostro punto di chiusura dopo cinque giorni che stanno per iniziare con le speranze di sempre, mai tradite, i timori di sempre, nodi che si sciolgono, come muscoli come polpacci come tendini, durante la marcia, sostantivo, mai marcia, aggettivo.
Da Gaudiano, che sa di gioia, a Cefalicchio, che ricorda il mal di testa, e vedere le orecchiette fatte a mano dalla maestria di polpastrelli che ormai vanno a memoria, punta di coltello a piallare, e tarallucci (senza vino) intrecciati freschi prima della cottura, come l’impagliatore di canestri e cesti. Mani, artigiani, tradizione, storia, cultura, da guardare, sentire, portare a casa con gli scatti delle ciglia, le uniche fotografie che alla fine restano indelebili. Le Masserie ci accolgono. Minervino ci osserva e ci protegge. Gli gireremo intorno più volte, scalfendolo, tangendolo, sfiorandolo, come fa lo squalo con la preda.
Secondo giorno: direzione Tormaresca, la tappa più lunga. Chilometri oltre i trenta, come i gradi che i raggi ci concedono dall’alto sulle nostre teste penitenti. Passiamo dalla Madonna del Sabato prima della grotta di San Michele dove è stata costruita una chiesa con tanto di altare e colonne, gradini da arena, quindici gradi costanti tutto l’anno e dove un eremita viveva, lì nella pancia della terra. A sera l’orto di Pietro Zito, noto per il suo ristorante dove è possibile prenotare soltanto con mesi di anticipo, ci accoglie con il suo respiro verde e pulito. Una passeggiata tra aromi, mani nella terra, odori ad impregnare narici, unghie a strofinare foglie persistenti. E’ un finalmente riempirsi i polmoni di bellezza, di quella Natura, governata dall’uomo, ma comunque lasciata libera di espandersi, seguire il proprio corso. Camminare, conoscere, sentire, ascoltare, raccontarsi. Il pellegrino, anche quello strano ed ibrido come questa sporca dozzina proveniente da tutta Italia, non si ferma mai, gambe e cervello sempre in funzione.
Per la terza tappa cominciamo ad avvicinarci alle tre città di questa recente provincia composta da un acronimo (roba tutta italiana!). Prima di toccare Andria ci aspettano le Cantine Rivera (nessuna “staffetta” con Mazzola), le serre, il Museo dell’Olio, l’Ipogeo, grotte naturali trasformate prima in abitazioni abusive adesso chiuse e ricoperte tranne questa divenuta cantina nel centro città, il Museo del confetto. Andria non è questa meraviglia anche perché accanto ha la splendida Trani, bianca, liscia, che sembra attirare tutta la luce dell’Adriatico.
Ma prima c’è da passare dall’Epitaffio della Disfida, ragione e movente che ha fatto partire l’intera carovana spinta da Stefano Tesi da una parte, dal Movimento Turistico del Vino della Puglia dall’altra. La visita al carcere femminile di Trani è uno dei momenti più alti: ascoltare il recupero, la metafora tra materiali di scarto riciclati riportati a nuova vita, delle persone attraverso l’impegno quotidiano nel lavoro, in qualcosa che realmente si ama, e comprendere che ci saremmo potuti essere noi lì dentro se fossimo nati ad un’altra latitudine, che il “mostro” visto dietro le sbarre è molto simile a noi, uguale, preciso, ci fa da specchio, e che noi, che dopo la visita possiamo uscire, siamo soltanto stati più fortunati.
L’ultima tappa ci attende, l’ultimo sforzo, gli ultimi passi. Mai un addio, sempre un arrivederci, che la fatica avvicina atomi e cellule. Raggiungeremo Barletta, la meta dei nostri sforzi, prima però ci imbracheremo di plastica trasparente per visitare il pastificio Maffei: con cuffia, copri scarpe, grembiule, addirittura copri barba sembriamo scienziati da laboratorio che stanno mettendo a punto il nuovo Frankenstein. La pasta esce dalle macchine, pasta fresca di un giallo pieno, carico.
Ultimo tratto con leggera pioggerella: ci mancava un po’ di Natura matrigna dopo la burrasca sul Muraglione nel ’11 e la neve lo scorso anno. Ma rinfresca i cuori leggeri, che camminando si lasciano i pesi, come le briciole di Pollicino, come zavorre incastonate per troppo tempo dalla vita di asfalto e città. Eccoci alla Disfida: come nei primi anni del ‘500 quando tredici cavalieri italici, ma sotto la bandiera spagnola, si batterono, vincendo, contro altrettanti francesi, anche noi siamo pronti, con le armi dell’olfatto, della vista e del gusto, nella nostra disfida particolare tra il Nero di Troia, con bottiglie coperte, di vari produttori della zona, ed il Tannat transalpino.
Il risultato (siamo anche in clima pre-Mondiali) è scontato, ma la cornice è gustosa. Ogni cavaliere versa il sangue (il vino, cristologicamente parlando), dell’avversario caduto nella pugna, su un telo bianco che alla fine sembrerà una tela di Pollock.
Una Puglia nuova, diversa, lontano da stereotipici di mare, sole e vento, ci ha accolto. Le ginocchia cigolano ma passerà. Altri cammini sono già pronti per portarci, condurci dentro a nuovi sentieri. Che un viaggio se non è interiore che viaggio è? Che un grande viaggio comincia sempre da un piccolo passo.