MILANO – In un”epoca di talent show gridati e spinti al limite del parossismo, in una stagione di voyerismo mediatico sfrenato, l’idea pirandelliana di un teatro nel teatro o, come in questo caso, di spiare le lezioni di un maestro a un’allieva attrice talentuosa, possono sembrare un qualcosa di anacronistico e nostalgico. Eppure questo fa l’ “Elvira”, diretto e interpretato, fra gli altri, da Toni Servillo, in cartellone al Piccolo Teatro di Milano fino al 18 dicembre. Tratto da “Elvire Jouvet ’40”, ovvero la trascrizione delle Sette lezioni tenute da Louis Jouvet a Claudia sulla seconda scena di Elvira del “Don Giovanni” di Molière, questo spettacolo ha l’indubbio merito di portare sul palco stralci del lavoro registico-pedagogico del maestro.
Di certo una testimonianza preziosa, ma anche una strana alchimia. Un ossimoro spiazzante. Indiscutibilmente una gran prova d’attore, quella di Toni Servillo, che interpreta la parte di un personaggio che, mentre stigmatizza la prova d’attore fine a se stessa in nome della verità del recitare, d’altro canto non sembra però riuscire a far raggiungere alla sua Claudia quelle “viscere”, che il personaggio Jouvet cerca invece di smuovere nella giovane ma troppo cerebrale discepola. Eppure l’intento registico dichiarato era un altro: non mostrare il back stage di un corso di teatro – compito minimo, forse, ma che sarebbe stato non per questo meno apprezzabile -, quanto parlare a ciascuno della motivazione e passione del fare il proprio mestiere, quotidianamente; di averlo scelto, come fu per Servillo, magari rinunciando a uno più comodo, e di poter ritrovare, giorno dopo giorno, il gusto e la voglia di praticare il lavoro, che ci realizza. Eppure tutto ciò non traspare. Quel che si vede, invece, sono la pedagogia, la disciplina attorale e l’immensa dedizione pedagogica di un maestro alla sua propria e ben precisa idea di recitazione, ma con un distacco, che, fedele forse al contegno dell’epoca, non riesce però a sfondare la quarta parete, arrivando al pubblico.
Così tutto si raffredda in quel razionalismo cerebrotico, ignaro di quel “sentire intelligente” che è precipuità del teatro, spiega in scena lo stesso Jouvet, ma “che non ha niente a ché fare con l’intelligenza delle filosofia”. Se la parte dell’attrice è ben disegnata attraverso sia pur pochi ma attenti accorgimenti – dal gesto di togliersi le scarpe, prima di mettersi a recitare, quasi a volersi idealmente spogliare di inutili sovrastrutture, all’accenno al riscaldamento, prodromi di una pedagogia attorale all’avanguardia -, non assistiamo però a una sua vera e propria crescita, ma resta sempre inchiodata a una mimica rigida e stereotipata. Come Claudia/Petra Valentini non arriva all’auspicata trasfigurazione e-statica, a cui, del resto, nessuna Elvira era ancora giunta, a detta del maestro, così non c’è climax neppure nella narrazione, che se dice dell’evoluzione della fanciulla, ce la racconta soltanto, più che farcela saggiare. Nessuna percezione del pericolo di quell’inferno, per salvar Don Giovanni dal quale, Elvira si arrischia ad trovarlo andare nottetempo in nome di quell’amore che fu e che ora si manifesta in questa annunciazione trasfigurata; così come accennato soltanto è il pericolo storico del Reicht, che costrinse l’attrice ebrea ad abbandonare le scene e che spinse Jouvet a un esilio volontario.
Di fatto sette battiti di ciglia – il buio tattico per i cambi-sequenze colmato da voci fuori campo con rilievi cronologici -, sono gli altrettanti quadri rubati alle prove dal febbraio al settembre 1940. Sul palco una piattaforma rettangolare, ideale ring a delineare lo spazio delle finzione; tutt’attorno l’interno di una scuola di teatro, a cui si allude attraverso un tavolinetto con abat-jour ingombro di carte e con un paio di seggiole in velluto ocra dalla solennità ed imperturbabilità surreali. Di contro, l’affannarsi garbato del maestro e degli altri due discepoli, Francesco Marino e Davide Cirri, fra palco e prima fila della platea, come sarà senz’altro capitato di veder fare a chiunque abbia avuto la possibilità di assistere alla preparazione di uno spettacolo.
E sotto una luce fissa, che non conosce incertezze, ma neppure sfumature, le parole lapidarie e precise di Jouvet, a declinarne la pedagogia. Dalla teoria secondo cui l’attore non può sentirsi a proprio agio, quando recita, perché deve muovere da un’urgenza, alla necessità che ci sia un flusso constante, fra attore e pubblico: “Come acqua”, specifica, che non può sempre essere la bonaccia di una pozza, ma che deve saltare, schizzare, impennarsi e precipitare, a fior di cascata, dando ritmo a quel che altrimenti annoierebbe anche lo spettatore più attento. E poi ancora la puntualizzazione che commozione non è quella assolta dall’attore attraverso il pianto, ma, al contrario, molto più emozionante è alludervi, lasciando al pubblico l’onere di emozionarsi. E via così, in un visionario profluvio di parole del Servillo/Jouvet, che quasi le canta in curioso contrappunto alla balbuzie reale del maestro francese, in una soluzione di continuità a cui fa da controcanto il continuo interrompersi dell’allieva.
Ma, nonostante il perfetto articolato di Servillo, la giustezza dei tempi e l’amplificazione di una mimica, la sua sì, davvero capace di restituire nei gesti il sentire vocazionale, è tutto sempre un po’ troppo freddo, distaccato, trattenuto. Chissà se sia il risultato di una regia consapevolmente atta a restituire la temperie algida dell’epoca dell’ordine del Reicht o l’inevitabile risultato di un’operazione che, volendo trasporre un momento documentale in chiave teatrale, ha preferito non correre il rischio di scivolare nel patetico o nel celebrativo.
Visto al Piccolo Teatro di Milano il 20 ottobre 2016.
Prosegue nella tradizione editoriale di Rumor(s)cena, la scelta di offrire ai lettori/pubblico e spettatori più versioni e sguardi differenti. Prospettive aperte ad uno sguardo più ampio e diversificato. Lo spettacolo teatrale va in scena ogni sera per un pubblico diverso e questo crea una ricchezza di opinioni, giudizi, impressioni. Emozioni. Lo spettatoreha un ruolo fondamentale e non può essere condiderato un fruitore passivo: il teatro vive in funzione del pubblico e solo attraverso la sua partecipazione attiva, progredisce e si fa carico di migliorarne la sua qualità artistica. Lo spettatore è il primo osservatore critico a cui va risconosciuto un ruolo competente e sensibile nel giudicare. La critica deve assolvere il suo ruolo assumendosi la responsabilità di aprire ad ogni tipo di sguardo e visione consapevole. Ogni contributo, diverso l’uno dall’altro, corrispondente o diversificato, allineato o distante, contribuisce ad aumentare una dialettica stimolante e produttiva.
r.r
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