Lo spirito libero che lo accompagna da sempre fa di Paolo Rossi, un uomo che guarda a sé e al mondo con occhi dell’artista curioso di indagare nei moti dell’animo umano. Con le armi che meglio conosce: quelle dell’irriverente e caustica comicità del giullare che vede oltre le apparenze. Il suo è un talento innato, inizia come apprendista comico esibendosi nei locali dove suscita subito l’ilarità tra il pubblico. La sua carriera è segnata da un incontro fondamentale per la sua formazione. Nel 1978 viene chiamato da Dario Fo per l’Histoire du Soldat. Nasce così un sodalizio duraturo sviluppato lungo tutta la sua vita, portandolo ad ereditare l’arte affabulatoria di Fo, la sua maestria di mescolare antiche drammaturgie con l’estemporaneità del presente. Come sta facendo ora con il suo «Mistero Buffo di Dario Fo» dove tiene a precisare essere «l’umile versione pop». E’ negli annali del teatro italiano la versione originale di Dario Fo che lo mise in scena per la prima volta negli anni Settanta alla Palazzina Liberty di Milano, dove il pubblico proveniva da tutte le fasce generazionali, accorso a “festeggiare” insieme a lui e Franca Rama, un evento che accomunava tutti. Paolo Rossi deve molto anche a maestri d’arte e di vita come Carlo Cecchi, Giorgio Gaber, Enzo Janacci, Giorgio Strehler, da cui ha saputo trarre preziosi consigli. Per molti anni ha recitato con la compagnia del Teatro dell’Elfo, e nel 1984 è stato diretto da Elio De Capitani in Nemico di classe. Da un anno e mezzo gira l’Italia con il suo spettacolo che riscuote ovunque successo e partecipazione da parte di pubblico entusiasta. Solo a Milano è stato replicato per 25 sere al Piccolo Teatro Strehler dove sono andati anche Dario Fo e Franca Rame a vederlo. In tournée da Napoli a Bolzano, ed è in quest’ultima città che lo abbiamo incontrato, poco prima di entrare in scena al Teatro Comunale, ospite della stagione del Teatro Stabile. La locandina di «Mistero Buffo» cita la regia di Carolina De La Calle Casanova, le musiche composte ed eseguite dal vivo da Emanuele Dell’Aquila, e la partecipazione straordinaria di Lucia Vasini. Una produzione La Corte Ospitale. L’intervista che ci ha concesso ha il sapore della narrazione, un dialogo cui emerge la spiccata sensibilità dell’artista originario di Monfalcone dove è nato nel 1953, e il vento che spirava a Bolzano, gli fa ricordare la bora triestina, lui divenuto cittadino milanese per adozione.
Uno dei momenti più avvincenti di tutto lo spettacolo è quando vi ritrovate seduti intorno ad un tavolino per discutere la messa in scena della Passione di Maria. Si passa dalla comicità esilarante e surreale al monologo sofferto e doloroso di Lucia Vasini. Oltre alla bravura di riuscire ad improvvisare.
«La Passione è stata montata alla fine perché rappresenta la summa di cose che ci sono in germe nella prima parte dello spettacolo. Se arriviamo a questo quadro calibrati è il segno dell’esito di una buona serata a teatro. In realtà è un preparare il pubblico alla Passione-Crocefissione con la salita sul Golgota di Goran, il manichino che raffigura Gesù nelle vesti di un emigrato. Ma prima c’è Lucia Vasini con il suo apparire surreale un po’ stralunata, e tra noi c’è un gioco al limite del dileggio. La preparazione di questa scena avviene fin dall’inizio dello spettacolo, parliamo attraverso un codice con Lucia che sta in quinta in attesa di entrare. Succede anche di cambiare spesso la scaletta, e improvvisiamo anche delle battute con il pubblico. L’altra sera ho recitato la scena di Lazzaro in dialetto meridionale.»
Ovunque abbiate recitato il successo è sempre identico o ci sono state differenze da città a città?
«Non trovo differenze sostanziali, è costante ovunque. In ogni caso noi abbiamo un codice recitativo che fa presa sul pubblico in modo identico, gli spettatori sembrano sempre gli stessi, che tu sia a Napoli a Bolzano. Certo nelle recite a Napoli, il pubblico era sempre molto esuberante. Il gradimento del pubblico lo si deve alla coincidenza di tanti fattori. Al perfezionare uno stile, al teatro popolare rappresentato al momento giusto. Capitano raramente condizione di fortuna, economica, storica. Una cosmogonia.»
Il suo Mistero Buffo fa riferimento a valori etici e politici. Sembra una presa di posizione netta rispetto ad una società che dimostra di regredire anziché evolversi. La politica diventata spettacolo e come dice lei si sostituisce al vostro lavoro di comici.
«Il teatro per me è un gesto politico, un modo serio di occuparsi dei problemi di tutti. Ciò che sta succedendo non è solo un problema dell’Italia ma di tutti, dove ogni cosa diventa spettacolo E’ un’invasione di campo. Noi però per quanto ci riguarda siamo all’avanspettacolo fatto dai politici. E’ qualcosa di fatto male. Le barzellette i politici non le sanno raccontare. Io che da ragazzo andavo a fare la claque per Peppino De Filippo, posso dire che oggi sbagliano tutto chi si comporta così. Il teatro è la madre di tutte le battaglie e chi ci lavora è bravo a fare le pause, la televisione invece non è capace».
Si ha la sensazione durante lo spettacolo di percepire la presenza di un’elaborazione catartica. Corrisponde al vero?
«Assolutamente si. E mi fa piacere che lo si noti. Molti lo avvertono ma non sanno cos’è. Non c’è nell’originale ma sono mie verità.»
Il suo impegno va oltre il teatro. Il primo maggio lei ritorna a Bolzano per parlare di sicurezza sul lavoro. A cosa si deve questo impegno?
«Ho realizzato un documentario che s’intitola Ridotta capacità lavorativa. E’ stato girato a Pomigliano d’Arco nell’estate del 2010 (nell’ambito della festa del Quincho, sul tema “Meglio rossi che bianche”, ndr), un problema che sento particolarmente caro. La sentenza del processo a Torino che ha condannato l’amministratore delegato della Thyssen è paradossale. Chi sta sopra di lui non è stato toccato. Colpiscono solo l’esecutore. Fa pensare. C’è gente che non smette mai di pensare. Il problema è che gli italiani sono brava gente finché tutto va bene. Se va bene ti tirano le monetine, se va male ti appendono a testa in giù! Se guardiamo bene noi non abbiamo mai perso una guerra.»