Teatro, Teatrorecensione — 23/04/2012 at 16:53

Vita e morte di Cesare nella stanza del Potere. Carmelo Rifici rilegge Shakespeare ai giorni nostri

di
Share

Shakespeare fa dire a Cassio dinnanzi al cadavere di Cesare, “In quante età future questa nostra scena sublime verrà recitata, in stati ancora non nati e con accenti ancora sconosciuti”. Una scena che diventerà nella storia del teatro e dell’uomo, metafora di un potere costretto a soccombere su se stesso, dopo averlo esercitato con la violenza. Sta qui la straordinaria contemporaneità del drammaturgo inglese, capace di universalizzare la crisi dello Stato nel suo travaglio, incorso per la trasformazione da Repubblica in Impero, e descritto nel Giulio Cesare per farne un esempio di riflessione adatto alle a tutte le generazioni successive. Come quella contemporanea che accorre al Piccolo Teatro Strehler di Milano (fino al 6 maggio), dove Carmelo Rifici ha messo in scena una personale visione del dramma, dalle caratteristiche di un allestimento dal respiro europeo, dinamico, dalle forti suggestioni anche visive come si conviene per il prestigio con cui si fregia il “Teatro d’Europa”.

Avvalendosi dell’adattamento drammaturgico di Renato Gabrielli, il regista ha optato per una riduzione delle battute dei personaggi principali con l’intento di recuperare più spazio per ruoli e scene minori. Rifici trasporta la storia in ambienti anonimi non identificabili (scene di Marco Rossi) che si scompongono e ricompongono a vista, creando una sequenza di stanze occulte e segrete, dove regnano ambizioni di potere, illuminate a seconda dell’azione drammaturgica necessaria da  A. J. Weissbard, autore di un disegno luci sfarzoso. È dentro in una di queste stanze (la frase che ricorre nel testo “Rome is room” è indicativa di come Rifici abbia voluto collocare la congiura sanguinaria, capeggiata da Cassio (Sergio Leone) e Bruto (un Marco Foschi inquieto e ieratico, combattuto tra due sentimenti contrastanti di amore e odio) il figlio adottivo di Cesare, le cui sorti si decidono intorno ad un tavolo nel segreto di una stanza, simile ad un comando militare impegnato a impartire ordini ad un esercito in guerra. È una Roma adattabile ad una qualunque città/nazione dove sia in vigore una dittatura imposta con un golpe, senza tempo o riferimenti storici particolari.

 

Il regista ambienta la congiura in spazi protetti da alte mura soffocanti e tetre. Tutto accade lontani dal popolo che assisterà, solo dopo l’assassinio di Cesare, ad un dibattito televisivo dove Antonio  (Danilo Negrelli è un appassionato oratore che da vita ad uno dei ruoli più riusciti) nelle vesti di conduttore, in grado di far cambiare opinione al pubblico (popolo) che sconfesserà l’approvazione concessa, in un primo momento, ai congiurati. È la rappresentazione plastica di una lotta di potere tra uomini e politici, dove se da una parte agiscono sentimenti e affetti privati, gelosie e invidie, dall’altra si assiste a come l’uomo investito di un ruolo pubblico agisca solo nei confronti dei propri interessi. Sono uomini in abiti borghesi come lo possono essere i politici che vediamo tutti i giorni apparire in televisione, omologati nei loro completi gessati con le cravatte d’ordinanza rosse o blu.

 

I colori scelti da Rifici (i costumi sono di Margherita Baldoni) appositamente per indicare come il cinismo dell’uomo di potere si nascondi sotto una apparente normalità. In realtà la rappresentazione di come il conformismo possa degenerare nell’autoritarismo. Il dinamismo che la sapiente regia ha saputo imprimere allo spettacolo dotato di scene complesse, dove vengono movimentati a vista numerosi cambi di scena, crea una tensione spasmodica a tutte le fasi del dramma, senza mai un calo di tensione. Si assiste così all’evoluzione della storia con una sorta di fermo immagini che prima creano dei quadri scenici compositi, per poi riprendere vita e azione. Tutto scorre e sembra dirci che l’ineluttabilità della tragedia è nel destino di chi ha ordito la cospirazione oltre  in chi la subisce. Cesare è un eccellente Massimo De Francovic consapevole a quale fine tragica  è destinato e non fa altro che andare incontro ai suoi carnefici. Un attore che incarna perfettamente questo ruolo pensato dal regista Rifici.

 

È la rappresentazione più vera e realistica che si adatta benissimo nei confronti di tanti dittatori che lo hanno seguito nei corsi dei secoli. Il regista ha una brillante intuizione nel descriverlo come un uomo che soccombe al male che lui stesso ha contribuito a creare. Non è il Cesare ignaro che la tradizione a teatro lo rappresentava come “vittima” inconsapevole. È perfettamente conscio e consapevole (a differenza di tanti politici italiani che lasciano agire a loro insaputa) di cosa gli accade e sarà lui stesso a offrire il suo petto ai pugnali. Il sangue scorrerà copioso sulla sua camicia bianca. Non c’è il pathos della tragedia classica come non deve esserci in questa lettura cosi attualizzata e astratta allo stesso tempo (che a qualcuno forse non convince) ma a nostro avviso calzante e moderna, come può essere la realtà di tante nazioni assoggettate da dittature e repressioni dei diritti più elementari dei popoli.

 

Nella regia di questo Giulio Cesare la tirannide, i giochi del potere, la supremazia del più forte, sono meccanismi che fanno parte di un ingranaggio che trova compimento nelle profezie di un indovino (un Massimiliano Speziani che da vita ad una specie di folletto luciferino ) in grado di prevedere la morte di Cesare, invitandolo a non presenziare in Senato il giorno fatale delle Idi di Marzo. Tutto è rosso a simboleggiare l’imminente tragedia che sfocerà nel sangue anticipata da una sequela presagi infausti, uomini ritenuti dotati di forza e carattere, succubi dei loro deliri di superstizione, animati da fantasmi che aleggiano tra le mura claustrofobiche. E’ come se agisse un inconscio collettivo dove la capacità di presagire il futuro è una componente determinante sul destino dell’uomo, in grado di scegliere tra istinto o la razionalità. Inizia da qui il Giulio Cesare con un teatrino fiammeggiante dove l’indovino enuncia con un fraseggio smozzicato frammenti delle sue visioni oniriche. Incombe il presagio infausto accompagnato dagli incubi di Calpurnia, la moglie di Cesare (Giorgia Senesi è una donna eterea combattuta nel suo tentativo di salvare il marito da morte certa).

 

È di vitale importanza sottolineare, come i moti dell’animo umano siano letti come pulsioni e compulsioni, dettate da un agire che sfugge ad una normale conoscenza analitica ma rientrino nel mistero della psiche a cui è difficile dare risposte esaustive. In questo Giulio Cesare agisce come speculare un eros (inteso come pulsione di vita ) e un thanatos (pulsione di morte) analizzate da Freud nella formulazione del conflitto psicologico, parlando di un dissidio cosmico tra i principi o le forze di Amore (Amicizia) e Odio (Discordia). L’ambizione dell’uomo non conosce confini e l’eloquio elegante nelle parole di Bruto e poi di Antonio, sono la sintesi perfetta del doppio che alberga in ogni essere umano. Tra le scene più avvincenti e riuscite c’è quella del discorso di Antonio dinnanzi al cadavere, coperto da un lenzuolo insanguinato di Cesare. Qui si decideranno le sorti dei traditori a loro volta destinati a morte violenta o per mano propria, attanagliati dai rimorsi.

 

La paura prende il sopravvento su tutti e Cesare diventa immortale. La recitazione è corale e da l’impressione di un disegno registico attento a far emergere le caratteristiche individuali di tutti i ventitré attori sulla scena, tra cui si distinguono Marco Balbi nella parte di un Cicerone solenne e autorevole (e poi anche Artemidoro e Lepido), un intenso e imperioso Pasquale Di Filippo nel ruolo di Casca, primo congiurato a uccidere Cesare, Tindaro Granata che impersonifica Decio (nella realtà Decimo Giunio Bruto Albino ma chiamato erroneamente Decio da Shakespeare) che trae in inganno Cesare, efficace nel tratteggiare con cinismo il suo personaggio. Non ci saranno vincitori alla fine che possano vantarsi di aver trionfato. Il male si ritorce sempre contro chi lo ha commesso e la storia insegna. Morte e sventura accompagnerà Bruto che si suiciderà, così farà anche Cassio facendosi pugnalare con la stessa arma con cui aveva colpito Cesare, Antonio si toglierà la vita seguita da Cleopatra sua celebre amante. Casca perderà la vita nella storica battaglia di Filippi. Caio verrà ucciso. Decio giustiziato. Cala il sipario su uno spettacolo di grande coraggio dove è possibile interrogarsi su come il potere sia una questione che ci riguarda tutti da vicino, senza distinzioni né contrapposizioni.

 

 

(crediti fotografici Attilio Marasco)

 

Giulio Cesare di William Shakespeare, traduzione di Agostino Lombardo, regia di Carmelo Rifici, ideazione e progetto scenico Marco Rossi e Carmelo Rifici, luci di A. J. Weissbard, costumi di Margherita Baldoni, musiche di Daniele D’Angelo, adattamento drammaturgico di Renato Gabrielli.

In ordine alfabetico: Ivan Alovisio, Marco Balbi, Giulio Baraldi, Elio D’Alessandro, Leonardo De Colle, Massimo De Francovich, Angelo De Maco, Pasquale Di Filippo, Gabriele Falsetta, Marco Foschi, Tindaro Granata, Sergio Leone, Danilo Nigrelli, Rosario Petix, Francesca Porrini, Federica Rosellini, Giorgia Senesi, Max Speziani, Angelo Tronca. Al Piccolo Teatro Strehler di Milano, fino al 6 maggio 2012.

 

Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano il 14 aprile 2012

 

Share

Comments are closed.