SIRACUSA – Talvolta al teatro sarebbe bello lasciarsi rapire dalle emozioni, dalle sensualità della musica, dei colori, della danza, dei racconti e delle parole, attingere con serena tranquillità a quella norma di saggezza antica per cui davanti ad un’opera d’arte è saggio solo chi si lascia ingannare. Eppure, sin dalle sue origini il teatro obbedisce anche ad un’altra legge: la legge secondo la quale esso o è totalmente contemporaneo o, semplicemente, non è. Una legge, già in vigore ai tempi di Eschilo si badi bene e che perdura rigorosamente intatta ancora oggi, persino laddove si voglia costruire uno spettacolo a partire da un testo della drammaturgia classica. E che cosa significa che un lavoro è nostro contemporaneo? Difficile dire compiutamente, ma una prima risposta è sicura: uno spettacolo è nostro contemporaneo se non sfugge, già nel suo consapevole farsi forma, alla fatica del pensiero, al rasoio tagliente del pensiero critico. Raccontiamo del cinquantunesimo ciclo delle “Rappresentazioni classiche” dell’“Istituto nazionale del dramma antico”, in scena al Teatro Greco di Siracusa da venerdì 15 maggio e fino al 28 giugno.
Ponendoci in questa prospettiva c’è da dire subito che “Le Supplici”, realizzate da Moni Ovadia, con l’apporto decisivo di Mario Incudine, su testo di Eschilo (traduzione dal greco antico di Guido Paduano, adattamento scenico e versione in siciliano di Incudine e Pippo Kaballà) è uno spettacolo che non convince: se infatti le idee guida su cui i due artisti hanno lavorato, giustamente traendole dal testo antico, possono essere (e per quanto ci riguarda sono) totalmente condivisibili, ovvero il dovere politico, civile, umano, di accogliere nelle nostre terre e difendere i profughi e quanti cercano protezione e, al contempo, il dovere dell’autorità politica di verificare continuamente la propria legittimità democratica, non altrettanto motivate ci sembrano molte altre scelte che caratterizzano fortemente la resa scenica di questo lavoro.
Le Danaidi, quando si presentano in scena (Donatella Finocchiaro è la prima corifea, Angelo Tosto è Danao), dapprima alludono in modo abbastanza scoperto alle ragazze nigeriane rapite dalla violenza jihadista di Boko Aram, poi, pur mantenendo costumi, maschere e colori di foggia tribale, si trasformano nelle tante donne che sbarcano quotidianamente da noi, stremate, impaurite, destinate ad essere sfruttate, quindi sono accolte – ecco lo scarto politico della tragedia – da un’autorità regale (Pelasgo, impersonato dallo stesso Ovadia) che, certo, si consulta con l’assemblea popolare ed è consapevole del rischio di guerra a cui sottopone il proprio popolo, ma poi è così entusiasticamente assertiva che di quella doverosa consultazione popolare, tanto drammatica quanto necessaria in Eschilo, quasi ci si dimentica. Il tutto è introdotto e, nel dispiegarsi dello spettacolo, è commentato da un narratore (ancora Mario Incudine) che fa il cunto siciliano, ed è proposto in scena quasi sempre in dialetto siciliano e poi in greco moderno, con una prevalenza del canto sulla recitazione che poco lascia al ragionamento e molto concede alla fascinazione dei sensi. Ma perché usare il dialetto? Per un omaggio allo spirito di ospitalità che i siciliani stanno dimostrando (ammesso che davvero così stiano le cose) nell’accogliere i profughi provenienti dall’Africa o dal Medio-oriente in guerra? O per l’idea di riproporre la poetica pasoliniana del dialetto come lingua non contaminata e di autentica umanità? È davvero ancora questo oggi il dialetto per noi? Conserva il suo legame con la vita? Possiede ancora questa potenzialità espressiva? Lo stesso vien da chiedersi per quel che concerne l’uso del greco moderno: perché questa scelta? Forse per alludere all’umiliante situazione in cui versa l’antica patria della nostra civiltà? Ed è poi proprio vero che la potenza politica di un dramma del genere non sia intaccata dalla poca comprensibilità del testo?
Nello spettacolo non mancano le risposte a queste domande, ma si tratta di risposte sostanzialmente facili, pacificate, che non aderiscono alla profondità (anche religiosa) del testo eschileo né danno ragione della tormentata difficoltà con cui i valori di ospitalità e accoglienza vivono nella realtà a noi contemporanea. E infine le musiche: melodie e sonorità (ben eseguite dal vivo) che oscillano tra il folklore, davvero troppo logoro, della “Baronessa di Carini” e un sound africaneggiante alquanto generico: sono in grado di offrire un contesto emotivo credibile allo svolgersi di un dramma del genere? Non mancano poi le inflessioni da cantore yiddish di Ovadia né passa inosservato il passo dell’oca (di chiara matrice nazista) dei soldati egiziani che vengono a riprendersi con la forza fino in Grecia le ragazze che erano state loro sottratte. Ecco, nel complesso questo spettacolo, pur sorprendente e importante per colori ed energia, appare una grande occasione sprecata, forse per eccessiva generosità politica, forse per mancanza di lucidità nel selezionare dal testo antico quanto bastava alla messinscena contemporanea.
Più solida appare l’“Ifigenia in Aulide” euripidea diretta da Federico Tiezzi (inutile ricordare qui la centralità di questo regista, insieme con Sandro Lombardi, nella vicenda della ricerca teatrale italiana). In scena Sebastiano Lo Monaco (un Agamennnone disciplinato, autorevole senza perdere di umanità e mai sopra le righe), Gianni Salvo (un duttile vecchio servitore), Francesca Ciocchetti e Deborah Zuin (corifee dalla solida presenza scenica), Francesco Colella (un Menelao antiretorico) Elena Ghiaurov (una Clitennestra elegante e misurata), Lucia Lavia (Ifigenia brava e capace di eseguire tutte le sfumature patetiche del testo e di superare in modo convincente la difficoltà che le brusche oscillazioni del personaggio euripideo implica) Raffaele Esposito (Achille), Turi Moricca (araldo), Giorgio Rizzo (musicista); impossibile citare uno per uno, per il loro gran numero, tutti gli artisti dei due cori maschile e femminile. Un allestimento di cui colpiscono soprattutto la nettezza del disegno registico, la sicurezza con cui vengono diretti gli attori e la sensibilità nella comprensione interna del testo, la pulizia e la discrezione quasi della presenza delle musiche (di Francesca Della Monica e di Ernani Maletta, con la consulenza di Sandro Lombardi). Il nodo tragico di questo dramma è racchiuso nella riflessione sulla disumanità feroce dell’ideologia e di ogni potere che da essa discende, e questo nodo Tiezzi sa rappresentarlo in tutta la sua vitalità e con geometrica esattezza. Detto questo per non si va comunque molto oltre e, se appare interessante l’elegante allusività con cui, specialmente nel coro e nel commento musicale si spinge, giustamente, il pubblico a riflettere sul tema della ferocia bellica che può sporcare qualsiasi purezza, proiettando questa riflessione su quanto sta avvenendo ad esempio nel contesto del conflitto russo-ucraino, non altrettanto convincenti appaiono però da una parte la scelta ancora “grecizzante” (anche il neoclassicismo però è una ideologia) dei costumi dei personaggi maggiori, dall’altra quella colorazione arancione dei pepli delle ragazze del coro e della stessa Ifigenia nel momento del sacrificio, che rimanda ai “sari” delle tante donne indiane vittime della violenza maschile, quindi, tanto tristemente quanto immediatamente, ai prigionieri di Guantanamo, e infine certamente alle vittime della follia omicida dei tagliagole dell’Isis. A sacrificare Ifigenia (sgozzandola) appare infatti il fantasma di un nerovestito terrorista Isis che esegue l’azione violenta (sacrificio, condanna, comunque menzogna) con un corto circuito di senso che lascia molto perplessi per la sua troppo esplicita, e quindi impoverita, referenzialità.
Di ben altro spessore è l’allestimento della “Medea” di Seneca diretto e adattato (su traduzione di Giusto Picone) da Paolo Magelli: questa volta la linea registica appare stagliarsi con chiarezza sin dalle prime battute e, giustamente, ogni elemento dello spettacolo a questa linea viene sottomesso. Il testo senecano è globalmente considerato e restituito alla luce dell’espressionismo tedesco primonovecentesco (non solo i costumi del coro si situano infatti in questa dimensione culturale, ma anche quelli dei protagonisti, mentre d’altro canto la scena appare una sabbiosa landa desolata che rispecchia la dimensione emotiva del dramma: in entrambi i casi si tratta di creazioni di Ezio Toffolutti) e della lettura che Wilhelm Reich, allievo di Freud, ne ha offerto analizzando il dispiegarsi della “Follia dell’amore”. Ovviamente appaiono vivissimi (persino in diversi intarsi del testo) il ricordo di Euripide e il magistero di Heiner Müller e si resta felicemente stupiti di come uno spettacolo così concettualmente complesso, politico e colto riesca a catturare l’attenzione del numerosissimo pubblico del Temenite che ne appare stregato.
Merito di una regia coraggiosa e senza compromessi certo, ma anche di un ensemble d’attori che ha saputo dare voce e corpo a questa lettura: Valentina Banci (una Medea febbrile e potente nel modulare il cozzare di un passato felice e luminoso nella Colchide oltremarina con un presente desertificato e devastato dal tradimento, nonché il suo lento scivolare nella follia), Filippo Dini (un Giasone forse eccessivamente contratto e di ascendenza troppo scopertamente letteraria), Daniele Griggio (Creonte), Francesca Benedetti (Nutrice) e ancora tutto il coro (Elisabetta Arosio, Simonetta Cartia, Giulia Diomede, Lucia Fossi, Clara Galante, Ilaria Genatiempo, Carmelinda Gentile, Viola Graziosi, Doriana La Fauci, Enzo Curcurù, Lorenzo Falletti, Diego Florio, Sergio Mancinelli, Francesco Mirabella) che fa un gran lavoro teatrale in armonia con la tessitura musicale, realizzata da Arturo Annecchino: ispirata, insolita, sorprendentemente ampia nelle sue colorazioni (elettronica, jazz, tango, techno dub), seppur talvolta troppo ingombrante nella sua presenza da colonna sonora.
“Le Supplici” di Eschilo
Traduzione Guido Paduano. Adattamento scenico in siciliano e greco moderno di Moni Ovadia, Mario Incudine, Pippo Kaballà. Regia di Moni Ovadia. Regista collaboratore Mario Incudine. Scene di Gianni Carluccio. Costumi di Elisa Savi. Musiche di Mario Incudine. Movimenti coreografici di Dario La Ferla. Progetto luci di Elvio Amaniera.
Personaggi e interpreti (in ordine di apparizione): Cantastorie, Mario Incudine; Danao, Angelo Tosto; Prima Corifea, Donatella Finocchiaro; Corifee, Rita Abela, Sara Aprile, Giada Lorusso, Elena Polic Greco, Alessandra Salamida; Pelasgo, Moni Ovadia; Araldo degli Egizi Marco Guerzoni; Voce egizia, Faisal Taher; Musicisti, Antonio Vasta, Antonio Putzu, Manfredi Tumminello, Giorgio Rizzo. Coro delle Danaidi e uomini del popolo a cura dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico, sezione scuola di teatro “Giusto Monaco.
Crediti fotografici: Gianni Luigi Carnera, Maria Pia Ballarino.
“Ifigenia in Aulide” di Euripide
Traduzione di Giulio Guidorizzi. Regia di Federico Tiezzi. Scene di Pier Paolo Bisleri. Costumi di Giovanna Buzzi. Musiche di Francesca Della Monica e Ernani Maletta. Consulenza musicale di Sandro Lombardi. Progetto luci di Gianni Pollini. Progetto audio di Vincenzo Quadarella.
Personaggi e interpreti (in ordine di apparizione): Agamennone, Sebastiano Lo Monaco; Vecchio, Gianni Salvo; Corifee, Francesca Ciocchetti e Deborah Zuin; Menelao, Francesco Colella; Clitemnestra, Elena Ghiaurov; Ifigenia, Lucia Lavia; Achille, Raffaele Esposito; Araldo, Turi Moricca; Musicista, Giorgio Rizzo. Cori di donne e di uomini a cura dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico, sezione scuola di teatro “Giusto Monaco”.
Crediti fotografici: Franca Centaro
“Medea” di Seneca
Traduzione di Giusto Picone. Adattamento teatrale e regia di Paolo Magelli. Scene e costumi di Ezio Toffolutti. Musiche di Arturo Annecchino. Progetto audio di Vincenzo Quadarella. Progetto luci di Elvio Amaniera.
Personaggi e interpreti in ordine di apparizione: Medea, Valentina Banci; Giàsone, Filippo Dini; Creonte, Daniele Griggio; Nutrice, Francesca Benedetti; Messaggero, Diego Florio; Corifee, Elisabetta Arosio, Simonetta Cartia, Giulia Diomede, Lucia Fossi, Clara Galante, Ilaria Genatiempo, Carmelinda Gentile, Viola Graziosi, Doriana La Fauci. Corifei: Enzo Curcurù, Lorenzo Falletti, Diego Florio, Sergio Mancinelli, Francesco Mirabella. Bambini Francesco Bertrand, Gabriele Briante
Crediti fotografici: Maurizio Zivillica.