VOLTERRA – Per la prima volta sono testimone di uno spettacolo dentro il Carcere di Volterra, dunque entro per la prima nella Fortezza. Mi accorgo che devo soppesare le preposizioni e gli avverbi – dentro, nel – perchè la prima sensazione, nonostante la gentilezza degli organizzatori e degli agenti di custodia, è che vai a rinchiuderti tu stessa assieme a dei detenuti. Ma sai che poi uscirai al massimo dopo un paio d’ore. Sbarre, chiavi, documenti, consegna di ogni effetto personale, corridoi stretti, cortili con mura altissime – quelle di un’ex fortezza medicea divenuta appunto carcere -, finestrelle quadrate: sembra un film, ma è vero, Reality, come il titolo di Matteo Garrone che ha fatto di Aniello Arena, uno dei reclusi una star. Inizia lo spettacolo di Armando Punzo, “Santo Genet”.
Il bianco accecante lucido che come un sudario assorbe gli oggetti in scena – tombe, sarcofagi, colonne di tempio spezzate – fa distinguere di essi solo le forme. Poi, apparizione di favole per grandi, guida nell’avventura dell’incubo bianco, c’è una figura che sembra non avere confini, ogni parte di lei, nera come un cerimoniere, si amplia attraverso una collana di rose rosse sfacciate da operetta, da gran soirée e insieme funerale blasfemo, gesti larghi accoglienti e soprattutto un sorriso dentro cui precipiti come Alice nel Paese delle Meraviglie. Tra le note di un piano nero suonato da Andrea Salvadori, una piccola banda di bambini bellissimi in nero, e la presenza di una donna bella, vestita da sposa ma come già morta, misteriosa e crudele come Milady dei Moschettieri.
Ed è quasi un tunnel il lungo percorso dove mi infilo con un mare di persone che ronzano come api nelle celle e nelle stanze delle Meraviglie: dicendo sfacciati brani da tutta l’opera di Jean Genet – Le serve, I negri, Il balcone, Querelle de Brest – un’ottantina di attori-detenuti creano siparietti, processioni, incontri con facce da demonio o visi d’angelo. Guardarli negli occhi è magnetico e da brivido: sono volti e corpi da galera, “tarati” come si autodefinisce Aniello Arena. Giocano a sorprenderti dietro e davanti a un’infilata di specchi dalle cornici smaccatamente dorate, da irreale tempio barocco, pieno di colori forti a cominciare da bistro e belletto da varieté; poderosi bicipiti tatuati; vesti cardinalizie; sfilate di orientali sugli zoccoli della tradizione; un languente ufficiale biondo con occhi come coltelli; guizzare di mille versioni di marinai alla Querelle de Brest che vengono e portano alla perdizione. E le tele di due Madonne: L’Immacolata di Federico Maria Legnani detto il Legnanino e la Madonna di una delle Cappelle della Certosa monumentale di Calci (Pisa) che calano sopra una figura butale fino a rivestirla di Paradiso.
Si entra e si esce, il caldo è feroce come in un porto dove si danno appuntamento vite bruciate piene di desiderio d’amore in qualunque modo. Il ritorno nella scena-bara bianca a cielo aperto è accolto di nuovo dall’abbraccio sorriso di Santo Genet-Armando Punzo trasformato completamente rispetto all’uomo incontrato prima, ascetico nel corpo e con i pensieri traboccanti dagli occhi tristi che hanno scelto da 25 anni la propria speciale reclusione per rovesciarla in poesia del fare, assieme a una fortezza e a una città etrusca, contagiando qualche volta – sempre di più – il mondo con la bellezza dell’arte venuta dal dolore.
Visto al Festival Volterrateatro il 22 luglio 2014