RUMOR(S)CENA – PRATO – Quando Mario Cecchi Gori lesse per la prima volta la sceneggiatura de L’Armata Brancaleone rimase molto perplesso. A preoccuparlo era soprattutto lo strano modo di parlare che Age, Scarpelli e Mario Monicelli volevano mettere in bocca ai personaggi della loro strampalata avventura medioevale, quel volgare maccheronico che i tre avevano inventato “tra una chiacchierata e una cena” e che, il produttore ne era sicuro, il pubblico non avrebbe mai capito. Ma Monicelli, da grande sostenitore del primato del cinema muto qual’ era, lo rassicurò dicendogli che i dialoghi del film sarebbero passati in secondo piano rispetto all’azione scenica.
Queste ultime parole famose deve averle tenute ben presenti Roberto Latini, perché se è vero che la sua versione scenica de L’Armata Brancaleone riparte dalla sceneggiatura per raccontare in modo del tutto inedito le vicende del cavaliere di Norcia e dei suoi “pugnaci”, la prima nazionale dello spettacolo al Teatro Metastasio ha mostrato come l’Armata di Latini sia soprattutto un’esplorazione delle potenzialità cinetiche del testo di Age, Scarpelli e Monicelli. Ma più di ogni altra cosa, seguendo Latini e la sua compagnia di valorosi, ci siamo resi conto di come quel linguaggio accrocchiato, che nel 1966 si era rivelato più vitale di ogni altra esattissima e accademica ricostruzione, rischiava a sua volta di diventare un oggetto da museo sotto la polverosa teca dell’universale riconoscimento.
Dal suono delle parole e dalla loro forzosa convivenza, proprio come forzosa è la convivenza dell’eterogenea compagnia d’arme, si sono prodotti stridore, movimento e quindi scintille. Insomma, lampi di idee che la sceneggiatura dell’Armata merita ancora di offrire e che hanno restituito una storia diversa, per ritmo e tonalità, da quella che ricordavamo. Fin dall’inizio più veloce, persino rispetto alla prima cruenta sequenza del film, quella dell’attacco al villaggio, perché sul palcoscenico Claudia Marsicano corpo, bocca, occhi e dito medio alzato- si è fatta voce della mitragliata di onomatopee riportate sul copione, tra versi di animali, pianti di donna, piantini di bambino e clangore di spade e di armature. E’ da questo fracasso di corpi e suoni che emergono i protagonisti: Savino Papparella, nel ruolo di un Abacuc forse un po’ più malizioso di quello di Pisacane, Ciro Masella che letteralmente abitato dal terzetto Pecoro, Taccone e Mangoldo con la sua interpretazione/possessione multipla riesce sia a rappresentare i diversi ruoli che gli erano stati assegnati che, indirettamente, a non far rimpiangere l’affollamento di umanità sgomitante, affidato nella pellicola a schiere di comparse.
E poi l’Aquilante di Francesco Pennacchia. Non più cavallo da rivestire di paramenti ma figura umana con potenza equina, che per muscoli ha la mimica e il cui galoppo non è carica, ma caricatura. Nel film di rado Aquilante viene cavalcato da Vittorio Gasmann e quando non può scappare, si arrende a chi lo trascina per le briglie. Il ronzino che Pennacchia mette in scena, invece, è spesso il vero motore dell’azione corale: indica una direzione, progressiva o avversa, nella scenografia orizzontale allestita da Luca Baldini, che suggerisce allo sguardo dello spettatore una lettura da sinistra a destra, come nella riga di uno scritto o in una striscia di un fumetto.
E quando gli altri membri dell’armata si perdono, girano intorno al perno delle loro insensatezze o tentano un’esplorazione in profondità dello spazio (come anella sequenza di quadri al centro della storia, la tormentata vicenda amorosa tra Brancaleone e Matelda) basta un guizzo o un nitrito di Pennacchia perché ci si rilanci verso la prossima pagina e la scena successiva. La scansione dello spettacolo è quella del film, dove ogni scena è un luogo e ogni luogo un incontro: il primo con il cavaliere bizantino, interpretato da Marco Vergani. Il Teofilatto di questa Armata è meno indolente e disilluso di quello che conoscevamo. Marco Vergani, attore dotato di una vena comica ben ragionata, lo preferisce ritrarre come un giovanotto appena fuggito dalla bambagia, con l’occhio languido e vanesio, più bimbo che guascone. Ciò che però rende simili il Teofilatto di Vergani e quello di Volontè, è che sono entrambi frutto di una riflessione pragmatica su come il personaggio possa essere funzionale alla messa in scena e cosa possa rappresentare per il percorso dell’attore che lo interpreta. Chi sceglie invece di attenersi maggiormente ad una delle caratterizzazioni del film è Marco Sgrosso, nel ruolo del monaco Zenone.
L’innamoramento di Enrico Maria Salerno per il personaggio sta nell’aneddotica e anche se lo spettacolo è apprezzabile proprio per quei momenti coraggiosi in cui viene presa distanza dal lungometraggio, la scelta di mantenere il tratteggio che Salerno fece di Zenone, del quale Sgrosso replica efficacemente voce e occhi spiritati, è adeguata e vincente. Una nuova visione di un personaggio così nitido nella memoria del pubblico avrebbe disinnescato la sensazione di vederlo calato in una trovata scenografica del tutto differente, ovvero un lungo condotto d’areazione che sul palco sostituisce il famoso ponte sullo strapiombo. Un ponte automatizzato che si alza con tanto di cicalio, mentre lo Zenone di Sgrosso per simulare la caduta resta immobile e, solo con la mimica facciale, dipinge a rallenty l’orrore sul suo volto nel vedere avvicinarsi il suolo. Ma anche per Sgrosso vi sarà occasione di dare nuova forma ad alcuni personaggi, come la mistress bizantina che qui diviene omaccione en travesti, ma sempre oggetto del desiderio, non meno di come lo fu Barbara Steele per Gassmann e soci. L’acceleratore dell’eccessivo, del grottesco e del farsesco è adoperato per ritrarre tutti i personaggi secondari, nelle cui vesti si alternano gli stessi attori impegnati anche nel ruolo dei protagonisti: il padre di Teofilatto ha le sembianze di un duca galattico con tanto di occhiali alla Star Trek (la parodia in chiave trekker, a sottolineare l’improbabilità di questa odissea umana appare sin dall’inizio), la vogliosa dama del villaggio appestato, sempre interpretata dalla Marsicana che offre bella prova nell’intonare la celebre Cucurucù.
E ancora il bravo Pennacchia nel ruolo di Matelda, una Catherine Spaak spigolosa e diretta negli appetiti, con la sua parrucca di spaghetti biondi, già criniera di Aquilante. E naturalmente Brancaleone da Norcia: parlare per ultimo del protagonista, dell’attrice o dell’attore che lo ha interpretato, fa sempre il suo effetto. Ma stavolta vorrei servirmene per dar forma a un ragionamento che credo sia iniziato proprio nel momento in cui assistevo all’interpretazione di Elena Bucci. Prima di tutto, il suo Brancaleone non è un protagonista. Questo è uno spettacolo di una coralità non comune. Ritmi, tempi, scambi devono essere stati costruiti partendo dal presupposto dell’affiatamento, di una visione condivisa che tutti gli attori hanno trovato vivida e perseguibile, prima ancora di una strategia di interplay e in questo, il carisma di Roberto Latini deve aver giocato un ruolo fondamentale. E’ un assalto frontale alla sceneggiatura, una prima linea che si è abbattuta sul testo non per stravolgerlo ma per lasciarsene travolgere, e di conseguenza la “duce” di questa compagnia ha come unico, difficile onere quello di cedere il controllo, prima inter pares. Elena Bucci ha dimostrato grande lucidità e misura nel mantenere il tessuto del suo Brancaleone senza che si disperdesse nel flusso dello spettacolo, né ne sovrastasse la coralità, lontana dalla tentazione di sovrapporre la propria indagine interpretativa all’immagine di Brancaleone e dal cedere alle lusinghe che il contrasto di genere avrebbe potuto garantirle.
È riuscita a ricordarci che è la storia che comanda, non un personaggio fra tanti che ha solo il privilegio di stare nel titolo, e a farci notare che tutto questo non è un’invenzione di Roberto Latini o di un’ esperimento teatrale, ma sta nella sceneggiatura del film, nelle sue parole.
Il valore dell’Armata Brancaleone di Latini, la necessarietà di voler sottoporre un classico nazionalpopolare a un procedimento di trasposizione teatrale, sta proprio nella sua capacità di rendere di nuovo oggetto di riflessione ciò che sembra assodato, riconosciuto e riconoscibile. E lo spettacolo risulta tanto più efficace quanto prende le distanze dall’originale: dall’azione del film come è stato annunciato, ma anche dal testo stesso. Perché se è vero che l’intenzione è quella di ripartire dalla sceneggiatura per costruire qualcosa di inedito il Brancaleone di Latini adopera un procedimento di emancipazione anche da quel valore culturale che dopo le iniziali polemiche venne attribuito al testo di Age, Scarpelli e Monicelli, disattendendo la comprensibile aspettativa di un’operazione filologica o di esegesi.
Si tratta invece di un esperimento di libertà che sorprende proprio per il suo coraggio nel bypassare completamente cinquanta anni di discussioni sull’importanza letteraria del volgare parlato dai personaggi de L’Armata Brancaleone. Di quella lingua fittizia ma in qualche modo esatta, Latini esplora invece la potenzialità di generare movimento, di costruire sovrastrutture da cui poter spiccare balzi di nonsense e giochi di parole basati sull’allitterazione, l’assonanza e il paradossale. Ma quando, superata l’azione filmica e dribblata la riflessione linguistica, ci aspetteremmo che di conseguenza arrivasse il turno di cadere anche per l’efficacia nazionalpopolare del lungometraggio, ecco che lo spettacolo sembra fare un passo indietro. Reinterpretate, magari calate in un contesto diverso, ma molte delle battute più famose, quelle indimenticabili, quelle, per intenderci, che citiamo alle cene con gli amici e amiamo vedere e rivedere su youtube, costituiscono anche in questa Armata Brancaleone, che vorrebbe mostrarsi poco interessata a fornire riferimenti di comodo, lo strumento con cui richiamare il pubblico a una collaudatissima, seppur gradita, risata. E questo produce una certa incertezza nella comprensione delle intenzioni: l’assoluta disinvoltura nel rifondare la storia, la grande libertà adoperata nel rimetterla in scena che mai, fino a quel momento, ci è apparsa irrispettosa o eccessivamente lasciva improvvisamente viene a mancare. D’un tratto c’è una battuta d’arresto nell’alfabetizzazione dello spettatore al tono della rappresentazione o, peggio ancora, si corre il rischio che lo spettatore percepisca l’esistenza di questo processo e quindi inizi a farsi domande, a cercare altri riferimenti che per sua natura lo spettacolo non dovrebbe offrire.
Ma ecco che interviene di nuovo il carisma di Latini, il suo mestiere. Gli sono complici le sonorizzazioni di Gianluca Misiti che, come ciò che di meglio c’è nello spettacolo, non indugiano troppo sulla riconoscibilità e il confronto con le musiche originali scritte per il film da Carlo Rustichelli. Potenti e essenziali accompagnano la firma che Latini appone al finale: un claudicante Chaplin, scampato all’esplosione del sonoro, che con poetica spietatezza porrà fine al miraggio agognato dall’armata. Firma con la poesia, Roberto Latini e la sua firma non cerca meriti ma dichiara responsabilità. Molti vedono i classici come un museo in cui farsi fotografare, Latini preferisce abitarli. Per quella firma sul muro sapremo chi cercare, o ringraziare.
Visto al Teatro Metastasio di Prato il 20 ottobre 2021