BOLOGNA – Lo chiamavano Varichina perché da ragazzino, per campare, consegnava a domicilio le bottiglie di candeggina e puliva i gabinetti pubblici. Siamo a Bari, fine anni 70, nel quartiere Libertà, e la libertà Lorenzo De Santis, detto Varichina, omosessuale povero, pare se la giochi tutta, spinto solo dal suo corpo desiderante e dalla voglia di essere donna, una prima donna, una sciantosa, e dalla voglia di essere vista e di essere amata. Il ritratto di un uomo inconsapevole della forza creativa e provocatoria della sua natura e il ritratto di una città che (come capita nei peggiori riti tribali), ingigantisce e confeziona la diversità altrui e la sacrifica sull’altare della normalità per purificarsi, e dichiararsi immune. Se ciò che è diverso rispetto all’accettabile, e non voglio ritrovare in me, lo rappresento fuori da me, allora non mi fa più paura. Posso colpirlo, umiliarlo anche distruggerlo, e dunque liberarmene. Infine brindare alla mia virilità (in questo caso almeno).
La docu-fiction di Mariangela Barbanente e Antonio Palumbo “La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis”, presentato al Biografilm Festival di Bologna, nasce da un articolo di Alberto Selvaggi, “Viva Varichina!” (Gazzetta del Mezzogiorno – giugno 2013) che celebra la vita del De Santis ricordato come un “precursore di tutti i Gay Pride, un rivoluzionario”, dunque, a suo dire, una sorta di eroe votato alla causa della liberazione omosessuale. E’ bastato far indossare all’attore Totò Ottis gli abiti di Varichina e fargli girare una scena sul lungomare perché i baresi tornassero indietro negli anni. Di colpo è successo tutto esattamente come allora. Varichina il parafulmine, obiettivo di improperi scagliati dalle macchine e dai motorini, ricettacolo di occhiatacce curiose, o severe o lascive di chi lo incrociava sulla strada. (Ognuno attraverso di lui pretende il suo pezzo di protagonismo).
Dalla intepretazione del bravo Ottis che impersona Lorenzo “per imitazione”, per averlo visto in giro per il quartiere quando era bambino, traspare un malessere dell’anima che non trova riscatto in nessuna rivendicazione pubblica, in nessuna passione “politica”, e che solo le amiche, vicine di casa, le uniche che gli dimostrano affetto, riescono a cogliere. Le stesse che gli danno soccorso e lo riportano in camera dopo i pestaggi e lo consolano nei momenti peggiori. Con loro Amalia, Rosaria e Marcella, (tre generazioni di donne), può starsene in pace nel cortile di casa a conversare di tende e merletti. Solo loro, che gli regalano vestaglie di tulle, conoscono il vero Lorenzo. Sanno del fratello che viene a trovarlo quando ha bisogno di soldi, sanno dell’abbandono della famiglia che non accetta la sua omosessualità e sanno degli innamoramenti sofferti perché chi lo va a cercare la notte di giorno si vergogna di lui. Nessuna velleità rivoluzionaria. Solo la forza istrionica dell’autore di se stesso, niente di più se non l’energia estetica e vitale che rimanda al mittente bestemmie e male parole con gusto teatrale. “Alla fine sono brave persone – dice di chi lo insulta – fanno solo una vita di merda e si credono meglio di me. Poi zitti zitti mi vengono a trovare”.
Palumbo e Barbanente, che da quell’articolo muovono i passi e rimettono insieme i pezzi della sua vita, non caricano di tratti “eversivi” il personaggio. Lo definiscono un monumento pop impresso nella memoria collettiva, confermando che è proprio dal “collettivo” che la caricatura di un uomo viene disegnata a suo esclusivo piacimento. L’ intuizione che ritroviamo nel titolo (la falsa vita), è la dinamica sociale che più fa male al cuore (non solo dei gay). Il film non è di denuncia sociale, è un racconto che sembra davvero fedele, senza esagerare nel macchiettistico (era proprio così che vestiva, camminava, maneggiava la borsetta e si aggiustava i capelli).
Il film rimanda a una visione antropologica del diverso, potremmo dire, azzardando, dello “schiavo della comunità”, di colui (o colei) che nella sua infinita solitudine appartiene a tutti, affinchè tutti possano goderne (un gioco, un lazzo arguto, un momento di comicità tra amici, uno scherzo, così tanto per ridere). E chi lo vuole, può abusare di lui. Esattamente in contrario rispetto all’icona di libertà. La storia è ricostruita attraverso i racconti di chi l’ha conosciuto. Da chi non mancò di rovesciargli addosso maledizioni e scongiuri (e qui il dialetto barese è proprio divertente e ancor più i sottotitoli in italiano che tentano di smorzare espressioni fiorite) e ora, da testimoni, nascondono il malanimo folcloristico fingendo di averlo amato.
Ma, pare, niente di quello che spinse il cronista a proporre un monumento a Varichina nella piazza del quartiere, in quella che si potrebbe dire una “operazione nostalgia”, abbastanza diffusa tra i cultori di storia locale, come succede di solito con le prostitute passate a miglior vita, (perché…ahimè non ci sono più le puttane di una volta). Il monumento si sarebbe trasformato davvero in un Totem che stava a dimostrare quanto la comunità si rafforzi attorno all’umano divenuto simbolo, suo malgrado, senza mai avergli concesso lo status di umano.
Visto al Biografilm Festival di Bologna