MILANO – La pioggia non lava via il male di vivere, almeno non del tutto, ma dopo la pioggia, metafora di un evento spartiacque, a certi occhi accade di guardare la vita in modo diverso. Accade ad Hélène, protagonista del monologo tratto dal racconto di E. E. Schmitt É una bella giornata di pioggia (apparso nella raccolta Odette Toulemonde et autres histoires). Gli occhi di questa donna fascinosa e di rara intelligenza, tesi fin dall’infanzia a filtrare il mondo attraverso lenti ciniche e pessimiste, ostacolo a ogni possibile percorso verso la felicità, dicono infine sì ad una “felicità astratta” ma pur sempre “migliore di nessuna felicità”. Il ‘sì’ di Hélène cade proprio dopo uno scroscio inatteso di pioggia, simbolica irruzione di una svolta nel destino. La felicità le viene offerta da Antoine, che la chiede in sposa in una giornata piovosa ma bella, come ogni cosa per lui. Lucia Poli restituisce allo spettatore le variazioni dello sguardo di Hélène, che passa dal distacco all’ironia, dalla disperazione all’apertura e indugia più spesso nel dubbio, e così dà corpo teatrale ad un complicato personaggio narrativo: una donna lacerata dalla coesistenza di due anime pregne di “idealismo e lucidità” insieme. In un controcanto dolce amaro, sempre attraverso gli occhi di Hélène trapela l’opposto sguardo di Antoine, da lei così diverso, uomo dall’entusiasmo inesauribile e dai pensieri lineari.
Nel blu profondo che domina la scena di È una bella giornata di pioggia ( blu è il colore del drappo sul quale si muove Poli-Hélène, blu il colore del suo abito) si intuiscono gli inquieti abissi dell’anima della donna, il prezzo che deve pagare per avere una mente mai appagata dagli incontri con le intelligenze degli altri e dunque votata alla solitudine. Dal matrimonio con Antoine, a lei antitetico ma di cui Hélène riconosce di aver avuto bisogno, e poi dai figli, non scaturisce per lei alcuna piena felicità, ma solo un freno al disagio di vivere, una “museruola” che le impedisce di urlare il proprio disprezzo del mondo. Hélène così si sdoppia, e Lucia Poli con pungente ironia gioca con questa nuova identità con la quale la protagonista ingaggia ancora uno scontro: Hélène prigioniera contro Hélène carceriera. La morte improvvisa di Antoine porta nella vita della donna un inaudito silenzio, fatto di assenza di pensiero e di sentimento. Di questo, della inveterata “incapacità di vivere” e di una gioia più esibita che esperita, Hélène riempie le sue sette valigie con cui viaggia in lungo e in largo fino ad un luogo lontano, Città del Capo dove, in una stanza d’albergo e con un Bloody Mary in mano, le sembra erroneamente che sia vicina la morte. Si alza di scatto dalla poltrona, come se una forza la spingesse verso la meta di quella tappa finale del viaggio: ma oltre la finestra viene sorpresa dalla vista di un uomo, cupo e pessimista, tanto simile a com’era lei un tempo. Tra di loro irrompe la pioggia. Ora è lei che, liberatasi inconsciamente dalla “museruola”, non può dire altro se non che “è una bella giornata di pioggia”.
L’impervia ricerca della felicità e dell’amore, che vuol dire anche faticosa ricerca di sé, si affaccia anche nell’altro racconto di Schmitt scelto da Angelo Savelli che ha curato la regia di questi due adattamenti. Nell’Intrusa, però, si tratta di una ricerca inquietante e claustrofobica. L’incantevole Lucia Poli si rivela anche in questo caso bravissima nel rendere la profonda leggerezza e la lucidità filosofica di Schmitt (autore teatrale, evidentemente, anche quando non scrive per il teatro). L’attrice è qui alle prese con una donna persa nella sola compagnia delle proprie allucinazioni, accantonate per pochi attimi quando lo sguardo, nel chiuso interno borghese che fa da sfondo alla pièce, si concentra su una finestra, spiraglio di una residuale apertura al mondo, e soprattutto quando la mente è catturata, con ebbrezza compulsiva, dall’implacabile elenco dei morti per la canicola estiva snocciolato dalla televisione.
Se in È una bella giornata di pioggia Poli si muove nella spoglia scena blu alla ricerca della felicità ed intenta a definire e sezionare i propri sentimenti, ne L’intrusa rimane ancorata alla poltrona che domina il centro del palco, unico concreto approdo all’estrema solitudine di una donna abbandonata (dal marito, dall’amica) e possibile riparo alla pazzia: ma quale pazzia? quella che rischia la colta protagonista, perseguitata dall’intrusa? o quella dell’imprendibile, misteriosa intrusa che vuole a tutti i costi entrare in una vita infelice? Poli trascina il pubblico in modo avvincente nel mistero di queste identità e nel mistero della solitudine, fino a infrangerlo: lo specchio, che domina la scena al di sopra della poltrona, rivelerà alla fine la natura dell’alterità in agguato.
È una bella giornata di pioggia
L’intrusa
di Eric-Emmanuel Schmitt
con Lucia Poli
regia Angelo Savelli
produzione Pupi e Fresedde-Teatro di Rifredi
Visto al Teatro Girolamo di Milano il 7 novembre 2017