ROMA – In occasione del trentennale della morte di Eduardo De Filippo, il teatro Argentina ospita fino al 1 gennaio 2015 la commedia Natale in casa Cupiello con la regia di Antonio Latella, che si discosta apertamente dai canoni che ci si aspetta. Il testo di Eduardo è entrato ormai a far parte del repertorio teatrale italiano. Per questo motivo, lavorare in modo non “canonico” potrebbe far storcere il naso a qualcuno. Per decifrare una regia però, bisogna dapprima studiare il rapporto che il regista ha intessuto con il testo drammaturgico e capire anche su che tipo di drammaturgia abbia lavorato.
Semplicisticamente si hanno due tipi di drammaturgia: quella che dopo la sua scrittura e le sue prime rappresentazioni diviene universale, perché attraversa i confini temporali e si reinventa sempre, come i drammi greci, che seppur legati alla tradizione dei miti del tempo portano con sé un messaggio che oggi è valido come lo era nel V secolo a.C.; quella invece che, anche se non qualitativamente inferiore rispetto alla prima, è legata al tempo e al luogo in cui è stata scritta.
Da questa considerazione si può partire interrogandosi sull’opera di Eduardo. È un testo che avrà sempre qualcosa da comunicare oppure è legato al tempo e al luogo in cui fu scritto e rappresentato?
La regia di Latella, scavando in fondo e compiendo un lavoro di svisceramento della drammaturgia, riesce ad afferrare l’universalità di De Filippo e la restituisce a un pubblico del XXI secolo con un nuovo linguaggio, ma carico delle stesse valenze simboliche delle origini. La messa in scena è minimale e libera da fronzoli e abbellimenti. La scatola scenica, infatti, è messa a nudo e la scenografia è composta da una sola grande stella cometa e da un carro. Questa operazione, anziché mortificare la drammaturgia, riesce a potenziarla, ad accrescerla, perché ciò che compone la messa in scena è quasi esclusivamente la parola. Infatti, tutto ciò che Eduardo ha scritto per la commedia, accenti compresi, diviene di primaria importanza e a emergere chiaramente sono i conflitti e le contraddizioni di un nucleo famigliare “modello”, così come il drammaturgo voleva.
Addentrandosi nella messa in scena, ci si accorge che, più che a una sola regia, ci si trova davanti a ben tre tipi di regia, una per ogni atto. Il primo atto presenta una regia essenziale nell’azione scenica e filologica nella resa drammaturgica. Gli attori, disposti lungo una fila orizzontale sul proscenio, indossano delle maschere per coprire gli occhi, di quelle che sovente si usano per dormire e che rimuovono man mano che la drammaturgia li svela. L’ingresso del personaggio avviene secondo due direttive: l’attore recita la didascalia di presentazione e di azione che riguarda il proprio personaggio e poi intona la battuta, quasi sempre rivolto alla platea. Le didascalie generiche, quelle che descrivono gli ambienti, vengono recitate in coro. L’idea di base è abbastanza interessante, richiama echi brechtiani e permette di apprezzare la magistrale scrittura di Eduardo, che si esplica anche nelle dettagliate didascalie o ancora nei vari segni di punteggiatura (accenti acuto, accento circonflesso) che Luca Cupiello declama e che gli altri personaggi sottolineano. L’intento spiazzante di Latella dunque si manifesta apertamente dal principio. Dopo un po’ forse, questo schema potrebbe stancare e lo spettatore sta lì in attesa, sperando che prima o poi avvenga qualcosa. Per tutto il primo atto però non succede nient’altro e bisogna aspettare il secondo per essere letteralmente travolti e destati da quella apparente e voluta piattezza.
Nel secondo atto, il pranzo della vigilia, la regia di Latella ritorna alle origini del teatro, addirittura ancor prima del teatro greco. Si presenta, infatti, come un grande e sconvolgente rito tribale. Le società primitive, che vivevano di caccia, davano vita a loro modo a una forma di teatro; tutta la caccia era un rituale e gli uomini si travestivano come l’animale da cacciare, che non era solo una preda da abbattere, ma un essere da ingraziarsi, talvolta da venerare, perché solo con la sua uccisione ci si poteva garantire la sussistenza. Quando i vari gruppi di cacciatori si riunirono per formare i primi raggruppamenti sociali, tutte le credenze e i rituali propiziatori si identificarono con un oggetto simbolico, il totem, comune rappresentazione del cosmo, centro di uno spazio scenico da cui derivavano tutte le gerarchie. La figura del totem istituisce naturalmente quella del tabù, quella delle infrazioni ai dettami del totem. Il primo tabù sancito dal totem è l’incesto, il divieto di accoppiamento tra membri che venerano lo stesso totem.
Secondo Freud poi, il complesso di Edipo, che istituirebbe tutte le relazioni e i comportamenti sociali, si ricollega ai rituali tribali. Il padre sarebbe quel totem simbolico che vieta l’incesto ma che Edipo, eliminandolo e giacendo con la madre, infrange. È dal rapporto tra totem e tabù e dall’infrazione di quest’ultimo, che nascerebbe la rappresentazione. Affinché si mantenesse un equilibrio tra totem e tabù occorreva però una figura soprannaturale, lo sciamano, colui che regolava tali rapporti, che dialogava con l’animale totemico sacrificato, col padre, per evitare le sue ire in seguito agli infrangimenti dei tabù.
La regia del secondo atto di Natale in casa Cupiello fa limpidamente emergere dalla drammaturgia di Eduardo questo conflitto, già presente nella scrittura. Luca Cupiello è il padre che impone i tabù, Carmela è la madre che simbolicamente, assecondando il figlio, permette l’incesto, il presepe è il totem, è la figura simbolica del padre che Ninuccia e Tommasino distruggono, per accettarla alla fine, dopo il sacrificio, risolvendo il conflitto totem-tabù. Latella, scavando profondamente nella drammaturgia, si comporta da perfetto sciamano, portando alla luce tale conflitto e non disperdendolo con orpelli vari. Lo spazio rituale è un carro con le pareti in vetro e dentro e attorno si svolge tale pratica. Il regista trasforma tutti i personaggi in figure ferine che, come i cacciatori delle società primitive, si travestono, ricoprendosi con dei fantocci di animali, per ingraziarsi ma anche per catturare la propria preda, Luca Cupiello, intento a dar vita al presepe, il suo doppio.
La lotta cui danno vita durante questo rituale bacchico non potrà che portare all’infrazione del tabù e a distruggere quella società famigliare che il povero Luca aveva costruito da tutta una vita, riunendola attorno al presepe, simbolo di quell’unione. Come ogni rapporto tra totem e tabù che si rispetti, la ricostruzione di un ordine non può che passare per un’infrazione e un sacrificio. Luca Cupiello, come il dio Dioniso, come Gesù Cristo, deve sacrificarsi sull’altare per salvare tutto quello che nella vita ha creato: la sua famiglia.
La caccia porta ben presto i suoi frutti e Luca Cupiello, colpito dalla tragedia per la distruzione della sua famiglia è in punto di morte. Comincia così il terzo atto che però dal punto di vista registico è meno forte dei primi due. Dal rituale, momento intensissimo, brutale, stravolgente, che spiazza lo spettatore, colpito da quella carica energetica, da quel mana che lo sciamano Latella ha diffuso in platea, si cade in una sorta di immobilismo. Quel rituale orgiastico e animalesco diventa melodramma, con tanto di recitativi e arie. Molte trovate di questo terzo atto però sono stranianti e inspiegabili. Latella cerca di costruire un presepe vivente con i vari personaggi. Si parte con una bizzarra discesa dal soffitto del portiere Raffaele, angelo annunciante, che si disperde in un lunghissimo monologo composto dai dialoghi dei vari personaggi. Carmela, coma una Maria addolorata, sta vicino a Luca moribondo, bambinello in fasce. Manieristica e forse superflua, orpello scenico che si poteva evitare, è l’aria del Barbiere di Siviglia di Rossini, La calunnia è un venticello, cantata dal medico.
Infine, la morte di Luca Cupiello, causata dal figlio Tommasino per soffocamento con un cuscino, riduce drasticamente la carica simbolica che era stata istituita in precedenza: Cupiello è pronto a sacrificarsi affinché la sua famiglia si riunisca, la ferita simbolica che gli è stata inferta è fortissima di suo, tanto da ridurlo in fin di vita. Perché dunque ucciderlo materialmente? Cupiello non è stato ferito continuamente dai “no” del figlio quando gli chiedeva se gli piacesse il presepe, che è un suo sostituto?
Chi si aspettava dunque una bella rappresentazione natalizia con tanto di presepe in scena, caffettiera e tazzine ne sarà rimasto deluso, pensando che Eduardo si stia rivoltando e che non abbia assistito a una rappresentazione teatrale ma a una sperimentazione. Ma si può ancora oggi continuare a dibattere inutilmente sulla dialettica teatro di tradizione e teatro sperimentale? Cos’è la sperimentazione se non un linguaggio nato dalle necessità di un dato periodo storico per esprimere un messaggio universale? Serve a qualcuno oggi una filologia registica? È interessante riproporre una delle tante copie del Natale in casa Cupiello di Eduardo o è più interessante l’impronta che un regista del 2014 riesce a infondere in un’opera e renderla viva, portatrice di un messaggio valido sempre e ovunque? Di musei teatrali ce ne sono abbastanza, anzi troppi. L’azione dell’Argentina è vincente, perché inizia a lavorare contro degli schemi vecchi e oppositivi da superare. È più interessante che un pubblico esca stravolto da uno spettacolo o che esca così com’è entrato? Più che dibattere se fosse stato uno spettacolo da dare al teatro India o all’Argentina bisogna impegnarsi perché non ci si interroghi più su quale sia il luogo deputato a una determinata regia. Il pubblico va educato in tal senso. Uscendo non deve più chiedersi se si tratti di tradizione o sperimentazione ma piuttosto se, rispetto al messaggio che una data pièce porta, quel linguaggio utilizzato sia efficace.
Visto al Teatro Argentina di Roma
In scena dal 3 dicembre 2014 all’1 gennaio 2015
Produzione Teatro di Roma
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
ROMA PER EDUARDO
Personaggi e interpreti
Luca Cupiello, Francesco Manetti
Concetta, sua moglie, Monica Piseddu
Tommasino, loro figlio, detto Nennillo, Lino Musella
Ninuccia, la figlia, Valentina Vacca
Nicola, suo marito, Francesco Villano
Pasqualino, fratello di Luca, Michelangelo Dalisi
Raffaele, portiere, Leandro Amato
Vittorio Elia, Giuseppe Lanino
Il dottore, Maurizio Rippa
Carmela, Annibale Pavone
Rita, Emilio Vacca
Maria, Alessandra Borgia
Drammaturga del progetto Linda Dalisi
Scene Simone Mannino e Simona D’Amico
Costumi Fabio Sonnino
Musiche Franco Visioli
Luci Simone De Angelis
Assistenti alla regia Brunella Giolivo, Michele Mele
Assistente volontaria Irene Di Lelio