REDAZIONE – Il Premio Rete Critica 2015 è stato assegnato, tra gli altri vincitori (Compagnia Gli Omini e Puglia Off) anche alla Compagnia Teatro Periferico. Questa è la motivazione del Premio: <<In una nazione che occulta la sua storia e lascia decadere le ex strutture manicomiali la caparbietà di Paola Manfredi e del gruppo che con lei ha condiviso il percorso ha voluto “sottrarre all’oblio un’infinità di vite, di racconti, poesie, creazioni […]. Ma c’è anche un secondo obiettivo: quello di reclamare un uso partecipato degli spazi degli ex manicomi non ancora ristrutturati. Oggi molti di essi sono abbandonati e oggetto di vandalismo, mentre potrebbero essere salvati e in qualche modo riconvertiti in luoghi di cultura)”.A partire dallo spettacolo Mombello.Voci da dentro il manicomio, un viaggio all’interno del mondo della follia e dell’internamento (con tutte le sue abiezioni), il percoso ha toccato nel’autunno 2015 otto ex Istituti psichiatrici in tutta Italia, attraverso una serie di attività spettacolari e non, che hanno sensibilizzato, attivato e messo in rete le realtà che operano nei diversi territori>>.
Dedichiamo questo speciale approfondimento ad una realtà tra le più serie e qualificate del teatro cosiddetto d’inclusione e prima di dare voce all’intervista realizzata a Paola Manfredi che è a capo della Compagnia Teatro Periferico di Cassano Valcuvia , diamo spazio al progetto finalizzato alla messa in scena dello spettacolo “Mombello. Voci da dentro il manicomio“.
Voci da dentro fa parte di un progetto chiamato Storia e storie, il cui scopo è quello di ricostruire la memoria di un luogo. Vicino alle Scienze sociali e alla mappatura di una biografia di comunità, in seguito si è arricchito delle suggestioni mutuate dalla public art in tema di relazione tra arte, struttura sociale e assetto urbano. Voci da dentro, lo studio, prima dello spettacolo, ha richiesto due anni di preparazione durante i quali sono state contattate le associazioni del territorio, tramite un seminario per formare i volontari e sono stati attivati laboratori teatrali nelle scuole superiori per sensibilizzare gli studenti al tema del disagio mentale. Incontri con infermieri, pazienti e medici, sopralluoghi (dalla struttura architettonica di un luogo deriva l’architettura di sentimenti, di forze, di pensieri che poi vengono rappresentati. È il genius loci, lo spirito del luogo, il dentro da cui provengono le voci). Lo spettacolo teatrale è stato poi rappresentato in manicomio, davanti ad un pubblico composto anche dai testimoni, che sono diventati così protagonisti di una particolare forma di auto-rappresentazione.
Senza la possibilità di poter osservare i malati, poiché non ci sono più i manicomi, lo sguardo si è rivolto sui corpi e sui volti disegnati da Gino Sandri, un pittore morto nell’ ex ospedale psichiatrico Antonini, che ha testimoniato la disperazione, la rassegnazione, la rabbia o anche la fragilità dei pazienti internati. Gli attori hanno scelto dai ritratti espressioni facciali e posture e poi ne hanno esteso al proprio corpo e alla propria voce i connotati, rifuggendo da un lato la caricatura e dall’altra la semplificazione e lo stereotipo. Per i personaggi femminili, pressoché assenti nelle opere di Sandri, sono stati utilizzati i ritratti del pittore-psichiatra Romolo Righetti, esposti al Museo della Mente di Roma.
La regia ha richiesto agli attori di selezionare delle azioni fra quelle ricavate dalle storie raccolte e catalogate (circa un centinaio), azioni che necessitavano di un luogo specifico in cui avvenire Si è creata così una drammaturgia di azioni, una vita muta, separata dalle parole, corpi staccati dalla voce.
Le azioni sono state scelte tutte, il che equivale a dire che non sono state scelte affatto, e perciò è impossibile, vedendo lo spettacolo, risalire a un punto di vista personale, ad una visione idealizzante o al contrario terrificante della follia. Ciò non significa, naturalmente, che nel lavoro non compaia anche la bellezza, dove c’è (o l’ironia, o la furia, o la poesia…)
Lo spettacolo racconta la vita all’interno del manicomio, racchiudendo nell’arco di poco più di un’ora e mezzo decenni di storia. Ma sono le azioni quotidiane a scandire il tempo, un tempo fatto di niente, di camminate interminabili lungo i corridoi e riempito da silenzi e da urla improvvise, ma anche di punte estreme di violenza, di incontenibile disperazione e di disperata impotenza. Lo stesso metodo usato per le azioni è stato utilizzato con le parole.
Dopo essere stato rappresentato più volte Mombello – Voci da dentro il manicomio ha dato origine al progetto CASE MATTE (2350 chilometri percorsi, 1760 spettatori coinvolti). Un viaggio di due mesi in alcuni vecchi ospedali psichiatrici, ormai chiusi, nasce con l’obiettivo di stringere legami con gruppi e associazioni impegnati a mantenere viva la memoria di quei luoghi, per raccogliere storie e conoscere la realtà delle molte persone che hanno vissuto là dentro, persone che potrebbero essere intercambiabili, tanto simili erano le condizioni di vita nei manicomi, diffusi ovunque nel Paese, ma che invece hanno tutte un volto, un nome e una storia propria.
Soltanto negli archivi dell’ex ospedale psichiatrico Antonini sono conservate poco meno di 84.000 cartelle cliniche, dal 1879 al 1999. Si stima che, negli 88 manicomi italiani, siano state rinchiuse centinaia di migliaia di persone, forse addirittura qualche milione, talvolta per una vita intera, al punto che si può parlare di “ergastoli bianchi”. Un popolo caduto nell’oblio, un pezzo di storia dell’Italia, di cui si sa ancora poco o nulla. Inoltre, da quando, grazie alla legge 180, in Italia i manicomi sono stati chiusi, i complessi che non sono stati riconvertiti in ospedali o in luoghi di cultura, sono stati lasciati cadere a pezzi e in molti casi sono stati oggetto di speculazione edilizia.
Paola Manfredi ci spiega come ha vissuto l’esperienza di portare lo spettacolo in diverse città, tra le quali sedi di ex manicomi, e che risultati ha prodotto?
<<Lo spettacolo è stato rappresentato sempre all’interno degli ex manicomi, tranne all’Aquila dove l’ospedale psichiatrico è ancora inagibile. Un primo risultato è stato quello della riappropriazione, seppur simbolica, da parte della cittadinanza di un luogo così importante nella storia della loro città. In alcuni casi, per esempio ad Aversa, il pubblico è entrato per la prima volta dopo anni nello spazio vuoto e abbandonato della Maddalena. Abbiamo conosciuto molte persone, soprattutto giovani (fotografi, reporter, artisti) impegnati nella ricostruzione della memoria. Alcuni di loro hanno fatto e stanno facendo un lavoro prezioso di documentazione dello stato attuale delle strutture e di censimento dei gruppi e le associazioni che lavorano attorno a questi spazi.
Per esempio Giacomo Doni che da anni fotografa e raccoglie storie di manicomi. Inaspettatamente, agli eventi si sono accompagnate azioni di denuncia: denuncia del costante processo di rimozione di quanto accaduto in cento anni nelle case di internamento (la trascuratezza nella custodia delle cartelle cliniche, la vendita a privati di opere come i graffiti di Oreste Nannetti), denuncia delle speculazioni edilizie, denuncia dei sistemi coercitivi e punitivi ancora oggi utilizzati nelle psichiatrie degli ospedali e nelle cliniche private.
Dal punto di vista della compagnia, il viaggio ha rappresentato una possibilità di portare lo spettacolo in molte città, da nord a sud, senza finanziamenti istituzionali, (a parte un piccolo contributo di Fondazione Cariplo), ma solamente grazie al contributo raccolto con un finanziamento dal basso. Mi ero stancata di chiamarlo festival. Volevamo che lo spettacolo arrivasse ad un grande pubblico. E questo è accaduto. Più di quattromila spettatori lo hanno visto sino ad oggi. Ci dicevano che la tematica era ormai superata e che al pubblico non interessava. L’uscita in questi giorni del film sul caso di Mastrogiovanni dimostra invece che l’urgenza c’era e c’è ancora oggi>>.
Oggi giorno su come viene affrontata la malattia o il disagio psichico, vista dallo sguardo di chi fa del teatro, uno strumento privilegiato, come viene valutata?
<<Parlare di disagio psichico è difficile. Noi non ne abbiamo le competenze. Non è il nostro lavoro. Ma posso dire ciò che abbiamo visto. Anche esperienze positive: la Tinaia i laboratori espressivi all’ex ospedale psichiatrico di Quarto a Genova, la fattoria Fuori di zucca sulle terre del’ex manicomio di Aversa, tante realtà di lavoro; tutte situazioni dove i pazienti trovano un posto dove stare e stare bene. Oppure i gruppi di mutuo aiuto all’Aquila, alcuni composti da soli pazienti, come quelli che gestiscono la radio. Le terapie relazionali mi sono sembrate un grande aiuto. Se invece la domanda è pensata su quale sia lo sguardo di chi fa teatro sul tema della della follia, certo il nostro lavoro ha a che fare con la follia. Perché il teatro mostra ciò che la realtà nasconde, i dettagli che altrimenti sfuggono, quello che sta dietro. E poi nella follia la logica non è quella razionale, è imprevedibile, come è quando vai in scena>>.
Che risultati avete conseguito con la messa in scena dello spettacolo? Un’esperienza significativa tale da chiedere quali sono i significati al di là del merito artistico conseguito ?
<<Per me e per gli attori l’esperienza è stata fortissima. Ogni volta abbiamo adattato lo spettacolo a spazi totalmente diversi, anche se si trattava sempre di corridoi. Qualche volta erano porticati, altre volte corridoi di reparti criminali, come al Padiglione Lombroso dell’ex manicomio di Reggio Emilia. Adattarci è stato un vero allenamento. Lo spettacolo ha acquistato sempre più la potenza giusta. E poi lo spettacolo è stato visto da molti giovani che per la prima volta hanno conosciuto qualcosa di cui non avevano mai sentito parlare. E pensare che negli 88 manicomi italiani, sono state rinchiuse centinaia di migliaia di persone, forse addirittura qualche milione! In ogni caso ne sono venuti a conoscenza non studiandolo su un libro, ma assistendo ad uno spettacolo che li vedeva “dentro”. L’empatia è il canale attraverso cui ho potuto raccontare l’esperienza di questo popolo dimenticato>>.
Che Italia avete incontrato?
<<Un’Italia, soprattutto al sud, molto vitale. Certo noi abbiamo girato per manicomi, quindi abbiamo incontrato una parte d’Italia molto particolare: quella che si muove intorno a queste realtà. Artisti visivi, scultori, pittori, psichiatri, operatori, psicologi, gruppi di occupanti, giornalisti, semplici cittadini>>.
Come hanno reagito gli spettatori e se è possibile quali sono le differenze riscontrate da città a città ?
<<Gli spettatori hanno sempre ascoltato con grande attenzione, anche quando da ascoltare con le orecchie non c’era poco o niente (il secondo tempo è completamente muto). Molte persone si sono fermate a parlare con noi, altri ci hanno scritto. In alcuni casi, come quello di Aversa, il pubblico, che non aveva la minima idea di quello che avrebbe visto, né mai avrebbe pensato di doversi sedere a terra all’umido (ha piovuto per tre giorni!), alla fine si è alzato tutto in piedi ad applaudire E poi c’è un’altra cosa. Il pubblico viene perché è interessato all’argomento, al luogo, perché ha avuto, o ha, un familiare, un amico malato. E’ un pubblico sensibile. Ma che non è abituato ad un teatro contemporaneo. Eppure ne gode. Inconsapevolmente. E questo è bellissimo>>.
Quali sono i progetti futuri dopo questa esperienza?
<<Il prossimo anno pensiamo di andare in Sicilia e poi forse fuori Italia. Il progetto crescerà con il tempo>>.
Se doveste consigliare l’approccio a questo genere di teatro quali consigli si sente di dare ?
<<Viaggiare, conoscere, approfondire, stringere relazioni, ascoltare, ascoltare, lasciarsi attraversare>>.