FIRENZE RIFREDI – Jordi è un giovane istruttore di nuoto che confessa ad Anna, la direttrice della piscina in cui lavora, di quando da bambino avesse la paura folle dell’acqua, dove era costretto a immergersi per imparare a nuotare: «… a me si che mi faceva paura l’acqua. Ma paura davvero … – e spiega come il suo istruttore lo costringesse – … mi stringeva forte al petto e si gettava in acqua con me, per farmi passare la paura. E sai qual era il risultato? Che avevo ancora più paura». Chi lo avrebbe mai pensato, una volta divenuto adulto, che la sua paura potesse trasformarsi, una volta superata, in un abile maestro, a tal punto da trasmettere la sua passione ai bambini suoi allievi. È assodato che ogni bambino ha le sue paure, e alcune di queste vengono “esorcizzate”; mentre altre possono restare nascoste ed emergere all’improvviso, tali da condizionare la vita adulta. Una paura può essere giustificata per un imminente pericolo, in cui ci si ritrova; per un evento aggressivo di cui si può essere vittima o paure suscitate da azioni impreviste e negative. Quando, invece, la paura è irrazionale, “patologica” o dettata da condizionamenti sociali, alla base dei quali, spesso, ci sono dei pregiudizi, diventa un problema sociale che si estende a macchia d’olio e supera ogni limite ragionevole.
La paura “irrazionale” è il filo conduttore drammaturgico de “Il Principio di Archimede” di Josep Maria Mirò, autore di un testo teatrale rappresentato per la prima volta in Italia, dal regista Angelo Savelli della Compagnia Pupi e Fresedde del Teatro di Rifredi a Firenze; il quale ha curato la traduzione dallo spagnolo all’italiano, con la collaborazione di Josep Anton Codina.
Una scelta artistica di grande pregio e meritevole di essere visto ancora in altri teatri, avendo colto quanto sia attuale – nel nostro presente storico sociale – la necessità di scegliere un argomento all’ordine del giorno: la diffusione di notizie tramite i canali dei media e dei social network, facilmente manipolabili. Josep Maria Mirò è un regista e drammaturgo formatosi all’Istituto del Teatro di Barcellona, oltre ad essere giornalista laureatosi all’Università Autonoma di Barcellona. Savelli ha scelto“Il Principio di Archimede” perché parli alla contemporaneità del nostro agire e vivere quotidiano, lacerato da profonde contraddizioni e inquietudini; causate in primis da una forma sempre più disgregante che colpisce le relazioni e i rapporti tra gli individui. Della forma ne scrive nel programma di sala dello spettacolo, (andato in scena in prima nazionale il 15 febbraio 2018 al Teatro di Rifredi, in esclusiva italiana e alla presenza dell’autore): « (…) La rappresentazione si concentra sulle dinamiche interpersonali e sociali che si scatenano implacabilmente a partire da un evento la cui realtà o falsità diventa del tutto influente rispetto agli effetti che produce».
La mistificazione o alterazione della realtà in cui siamo immersi è uno dei problemi più urgenti da affrontare, ma quali sono le cause? Una di queste viene analizzata da Mirò, in cui si racconta la vicenda di quattro personaggi che compongono la storia: Jordi (un istruttore di nuoto dal carattere estroverso), Hector (un collega riservato e conformista), Anna (la direttrice della piscina molto severa e provata dalla perdita di un figlio giovane), David (il padre di un piccolo allievo nuotatore, ostaggio della sua paura che lo ossessiona per i presunti pericoli che suo figlio può incorrere). Tutti e quattro sono responsabili di una dinamica agita come una partita a scacchi, mossa da emozioni che si vanno ad infrangere contro la razionalità del pensiero, ogni tentativo di analizzare gli avvenimenti lucidamente, scaturiti dal sospetto di pedofilia, commessa da parte di uno dei due istruttori verso un bambino. Si rischia di scadere nella “caccia alle streghe”.
Tema assai presente nelle cronache quotidiane. Ma non è questa l’urgenza da cui prende spunto la drammaturgia, e di conseguenza una regia impeccabile, costruita per scene che si susseguono senza rispettare un ordine cronologico, quanto, invece, utilizzando la tecnica della moviola – facendo scorrere avanti e indietro i quadri scenici – per suscitare una profonda riflessione su come veniamo condizionati dalla superficialità delle informazioni divulgate senza controllo. Le famigerate faks news . La trama racconta cosa accade nello spogliatoio di una piscina, come se la memoria degli spettatori venisse sollecitata a ricordare quanto visto precedentemente, con la differenza di dover ritornare sull’azione commessa, affinché si possano analizzare le cause scatenanti, le reazioni simili a pulsioni e agiti (forse anche dettati dall’inconscio), ma responsabili di sabotare la vita di tutti i presenti.
La normale attività ginnica e le relazioni si disintegrano di fronte alla pesante accusa di aver baciato un bambino; da qui nasce il “processo” che viene mosso contro l’istruttore e la stessa direttrice che non ha saputo evitare il “contatto” fisico tra adulto e bambino. Nessuna prova che possa affermare la responsabilità soggettiva, quanto un attacco concentrico veicolato dai social network: sta qui la paura di cui dovremmo tenerne sempre più conto, quando ogni parola, pensiero, azione, viene catapultata/o dentro questi mondi virtuali e paralleli, ormai sostitutivi di un confronto dialettico reale, basato sullo scambio tra persone e fautore di un contraddittorio che sappia rispettare civilmente le proprie opinioni e quelle altrui. La frantumazione del senso di realtà diventa una condizione d’obbligo per chi ne è vittima o colpevole, senza più distinzioni. Consapevoli o meno di essere stati contagiati da queste nuove forme di comunicazione – linguaggio, il condizionamento è tale da aver deformato, modificato, destrutturato il nostro modo di pensare; e dice bene il regista quando spiega come «le informazioni vanno più veloci della capacità che hanno gli individui di inquadrarle ed analizzarle con profondità, restando prigionieri degli aspetti più semplicistici, scontati ed urlati della comunicazione (…) e il testo di Mirò è al tempo stesso la rappresentazione della spirale che dalla paura porta alla violenza ed una metafora dell’ambiguità della verità».
Tutto avviene in una stanza che assomiglia sempre più ad un ring in cui il duello è tra quattro persone, chi sta dalla parte di chi viene messo sotto accusa e dall’altra l’accusatore, in mezzo ci sta una donna e un uomo coinvolti e impossibilitati nell’avere piena certezza se le accuse siano infondate o veritiere. Tanto basta, però, a suscitare in loro sospetti, sentimenti di repulsione, distacco affettivo e professionale. La paura li contagia e non fa sconti a nessuno. La grande forza di questo lavoro sta nel descrivere con rigore, sapienza, esente da ogni contaminazione retorica, una storia senza mai arrivare ad una “sentenza”, a conclusioni sulle reali intenzioni – azioni (commesse da Jordi, l’istruttore), perché non è questo il senso che muove l’ispirazione del drammaturgo. Quello che interessa cogliere è come sia in bilico la società attuale e gli esseri umani la intendano vivere. Cosa più importante che si riscontra nel testo e nella messa in scena (Savelli ha scelto attori e un’attrice capaci di aderire con precisione millimetrica alle esigenze della regia e ancor prima a quelle dettate dal copione), è come il tema della paura venga declinato fino a toccare argomenti, quali l’educazione, come fattore di crescita sociale e culturale, le relazioni di ogni natura, dove agiscono per includere o escludere (l’esclusione è il punto dolente che dimostra sempre più l’intenzionalità a separare, dividere, allontanare), causando sempre più forme di discriminazione e intolleranza, divisioni all’interno delle comunità, spersonalizzazioni fino ad arrivare ad un vita priva di sane emozioni. Nota a margine: il Teatro di Rifredi è un esempio di inclusione sociale e culturale, seguendo il dettato di agire sul territorio per creare comunità solidale e partecipativa.
Il punto focale di tutta la trama e riflessione del testo sta qui: cosa rischiamo se ogni nostro comportamento, gesto e sentimento viene ricusato, per lasciare posto a relazioni asettiche e formali a tal punto, da evitare ogni momento di socializzazione? La domanda che si pone il regista è esaustiva per spiegare a cosa stiamo andando incontro: «(…) Vogliamo una società dove, disgraziatamente, possono verificarsi delle crepe o degli abusi ma dove sia ancora consentita la tenerezza tra gli individui; oppure una società dove sia ancora consentita la tenerezza tra gli individui; oppure una società dove si mettano in campo tutti i meccanismi di sicurezza per impedire ogni rischio, anche a costo di diventare tutti un po’ poliziotti e un po’ indagati..?»
Lo spettacolo diventa così una preziosa opportunità per fermarci a capire cosa siamo e che responsabilità assumiamo, nel singolo agire soggettivo, a fronte di problemi che appartengono alla collettività; senza per questo cercare di moralizzare aprioristicamente: non è questo il vero compito del teatro, se non offrire agli spettatori, la totale autonomia di scegliere una propria idea e convinzione e in base a quanto assistito nella rappresentazione teatrale, mediatore tra finzione e realtà; e li venga concessa la possibilità di esprimersi liberamente? Il giudizio soggettivo esente da un finale che questo spettacolo lascia aperto a tutti e alla possibilità di una discussione corale e intelligente, supportata dalla creazione artistica così condotta, vorremmo sempre vederla a teatro. La pulizia del gesto attorale, la recitazione misurata, il bilanciamento calibrato tra ruoli. Giulio Maria Corso, Monica Bauco, Riccardo Naldini, Samuele Picchi ne sono i protagonisti; ognuno dei quali concorre al successo, agendo sulla scena come se ogni loro movimento e parola imprimesse sempre più forza al testo, che appare ai nostri occhi come per un artificio del quale non conosciamo il trucco.
Giulio Maria Corso è l’istruttore sui cade l’accusa di aver baciato il bambino che la paura dell’acqua lo aveva fatto piangere. Tenerezza o abuso? L’attore descrive benissimo il suo stato d’animo sempre più fragile, ferito da chi non crede nella sua buona fede e onestà. Il suo ruolo è difficile perché in questo testo sono presenti anche i non detti a fare la loro parte, e il regista sceglie di posizionare gli attori al centro del palcoscenico e ai due lati il pubblico. Ogni azione si rivolge alternando lo sguardo e la recitazione ai chi assiste a poca distanza. La prossemica così ravvicinata diventa così un modo per portare dentro lo spettatore, come se vivesse egli stesso il “dramma” che si sta consumando tra persone, un tempo affiatate tra di loro e sempre più distanti a causa del sospetto che logora senza trovare una via d’uscita.
Monica Bauco, attrice storica di Pupi e Frisedde, incarna un ruolo femminile tratteggiato con estrema delicatezza, da donna severa e integerrima si scopre indifesa, fragile e sofferente. La sua parte è fondamentale per tutta l’economia dello spettacolo, agendo sempre tra raziocinio e sentimento oscillante per via della sua stessa condizione di professionista sempre più in crisi. Samuele Picchi assume il ruolo dell’ “agente investigativo”, amico collega “tradito” subendo la delusione nei confronti di chi ritiene colpevole. Una recitazione che imprime ogni istante all’azione un senso di attesa e di suspense che non avrà fine e non potrebbe essere altrimenti. L’energia che offre si somma a quella di tutti gli altri e Riccardo Naldini, il padre di uno dei bambini che frequentano i corsi, restituisce con credibilità il ruolo di un uomo tormentato e spinto da irrazionali pulsioni, che lo costringono a cercare un colpevole a tutti i costi. Il finale resta aperto, dove il dubbio di cosa sia realmente accaduto e creato il “conflitto”, le supposizioni fantasmatiche di un inconscio collettivo, in preda a paure di cui l’uomo sembra sempre più vittima, è il segno distintivo che nulla è scontato nella nostra vita.
Il confine è labile e suscettibile di continue interferenze e sta a noi cercare sempre di ristabilire una giusta distanza tra il dovere di difendere sempre un’etica alla base di una spiegazione razionale e logica che sta alla base di una morale composta da norme e valori condivisi e per questo pilastri portanti di ogni forma di convivenza sociale. “Il Principio di Archimede” parla al cuore delle persone.
Visto al Teatro di Rifredi il 24 febbraio 2018
Josep Maria Miró, nato in Catalogna nel 1977, si è diplomato in regia e drammaturgia all’Istituto del Teatro di Barcellona. è stato giornalista radiofonico ed è professore di drammaturgia all’Università di Girona e docente di arti sceniche alla Scuola Superiore di Cinema e Audiovisivi di Catalogna. Quasi sconosciuto in Italia, è invece uno dei maggiori drammaturghi spagnoli contemporanei e le sue opere sono tradotte in quindici lingue e rappresentate con grande successo in altrettante nazioni.
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