RUMOR(S)CENA – MILANO – La strage della Banca dell’agricoltura, in Piazza Fontana, si compì il 12 dicembre 1969. Non credo se ne dia notizia nei manuali di storia (i cui ultimi capitoli, peraltro, non si riescono mai a trattare nelle scuole); c’è quindi ormai più di una generazione che non ne ha avuto notizia dalla cronaca, e ne ha – nella migliore delle ipotesi – una conoscenza indiretta e ormai sbiadita. Bene ha fatto, quindi, Campo Teatrale, a riproporre criticamente quella vicenda. A monte c’è un’accurata ricerca effettuata da Simone Faloppa, interprete e coautore del testo (in collaborazione con Rita Pelusio & Domenico Ferrari).
L’opportunità di riportare alla memoria quella vicenda consiste nel fatto che non si tratta solo di un momento storico nodale, che segna l’inizio di quella dolorosa stagione che si indica come “Anni di piombo, ma anche per almeno altri due motivi che rendono la vicenda scandalosamente emblematica: il fatto che i colpevoli non siano mai stati assicurati alla giustizia (e purtroppo non si tratta dell’unico caso nella storia contemporanea); ma specialmente perché inaugurò quella che viene chiamata “Strategia della tensione”, con la costruzione mediatica, a tavolino, di un perfetto colpevole da dare in pasto al pubblico: un disegno perverso cui si assoggettarono supinamente tutti i quotidiani, senza distinzione di orientamento politico.
Il titolo allude esplicitamente a Pietro Valpreda, un anarchico, già ballerino, figura frettolosamente individuata come il mostro da sbattere in prima pagina. A questo proposito, è da notare come Falloppa sia a suo agio anche nei siparietti coreutici che alterna all’esposizione dei fatti e alla denuncia politica, che innerva l’intero spettacolo. In esso, infatti, si ricordano anche alcuni compagni di Valpreda: i quattro giovani del gruppo anarchico romano “22 marzo”, anch’essi coinvolti speciosamente nell’attentato, e ai quali pure toccò, prima di essere definitivamente assolti, un lungo periodo di detenzione; ovvero, come sottolinea Falloppa, la sottrazione della loro gioventù.
L’uso del vernacolo romanesco, utilizzato nell’evocazione del gruppo romano, i cui nomi, a differenza di quello di Valpreda, non sono mai entrati nella memoria collettiva, costituisce un limite alla comprensione delle informazioni che li riguardano. Ma lo spettacolo resta una vigorosa denuncia, non solo del clima politico, ma anche lo svelamento di alcuni meccanismi sociologici di massa di quegli anni, dei quali ci viene restituita argutamente anche un’icona del tempo: l’inconfondibile carena della Vespa, la motoretta, diffusissima all’epoca, che verso il finale dello spettacolo si compone e prende inaspettatamente forma
Visto alla Sala Bausch del Teatro dell’Elfo di Milano il l2 maggio 2023