Grazie MILANO – Otto porte, che introducono ad una piccola stanza dove si conserva un Nachlass, un ‘lascito’. Un’eredità di cose, per lo più senza valore e quotidiane, ma soprattutto un ‘lascito’ di pensieri. Otto stanze che racchiudono le parole dette in previsione della morte da altrettante persone, registrate e consegnate al futuro. Questa nuova produzione dei Rimini Protokoll diventa dunque una specie di inchiesta sulla morte, sulla maniera di affrontarla, su quel che si desidera resti di sé, sul senso che si attribuisce alla vita. Otto soglie sono quelle che varcano gli spettatori della performance artistica-teatrale del gruppo berlinese fondato nel 2000, che ha come programma un teatro anti-teatrale attraverso l’impiego di altri mezzi (video, audio, strumenti sensoriali). Un anti-teatro che esplora la realtà e la sottopone ad una spietata analisi (http://www.rimini-protokoll.de/website/de). Teatro etico e civile, dunque, quello dei Rimini Protokoll, ed anche teatro fortemente simbolico: le otto stanze di questa installazione rinviano all’otto come simbolo dell’infinito, forse anche al simbolo cristiano per la resurrezione. Otto dunque le tappe di questa specie di itinerario iniziatico sulla vita e sulla morte, ed otto gli elementi che caratterizzano questo laboratorio artistico, e che qui di seguito enumero come se fossero altrettanti lemmi di un vocabolario del tipo di teatro praticato dal gruppo berlinese.
Seguendo così il loro stesso metodo di auto-presentarsi con la pubblicazione di un lessico della loro idea di teatro che si intitola ABCD (http://www.theaterderzeit.de/buch/rimini_protokoll_-_abcd/)
1. Spazio. “Insegnami il cammino e le sacre porte aprimi”, chiede Enea alla Sibilla poco prima di iniziare il viaggio nel regno delle ombre. Viene in mente questa citazione, mentre ci si addentra, guidati da una maschera, in un corridoio buio e nero e poi in un successivo vestibolo, stretto e buio: non siamo in teatro, ma nel regno delle ombre. L’Ade contemporaneo così come è immaginato dai Rimini Protokoll pare una sala di aspetto ovale, dalla luce fredda di uno studio medico, su cui si aprono otto porte. Sulla volta non splende il cielo stellato, ma l’immagine virtuale del mondo: la carta geografica della terra capovolta mostra piccole luci che non sono stelle, pur avendone l’ingannevole aspetto, ma luminosi indicatori di simulazione delle morti sul pianeta, ogni istante che passa. Mentre attendiamo di ricevere i ‘lasciti’ di otto persone, nel mondo si continua a morire. Lo ‘spettatore’ si trova già di fronte ad una provocatoria scelta: varcare davvero quelle porte, che si apriranno automaticamente, e dietro ognuna delle quali si nasconde quel che resta di una vita, oppure tornare indietro, tornare alla luce, evitare il confronto con la morte.
2. Tempo. Si intreccia, in questo laboratorio, il tempo scaduto di chi ha voluto lasciare qualcosa di sé, dietro ad ogni porta, prolungando però all’infinito la sua presenza virtuale proprio attraverso la performance della propria riflessione della morte, ed il tempo che scade in continuazione, segnato da display luminosi sopra ogni porta che si apre automaticamente allo scadere di otto minuti: ed otto minuti sono quelli concessi allo spettatore che varca le soglie per entrare in relazione con chi ha voluto lasciare la propria eredità. Dentro quelle stanze il tempo stabilito incrocia altro tempo: del ricordo, del rimpianto, della vita trascorsa, della vita degli altri che sopravvivono e con i quali le voci nelle otto stanze cercano modi per comunicare ancora ed essere compresi, per vivere ancora nel tempo che verrà.
3. Nome. “È e non è più”. Chi non è più in vita, come recita un verso dell’Alcesti di Euripide, tragedia fondamentale sul mistero della morte, continua ad essere e, ad un tempo, a non essere più. Come può, chi sopravvive, affrontare la realtà dell’assenza? Dolorosa domanda dalle infinite e mai definitive risposte, tra le quali vi è però, ricorrente, il bisogno di conservare il nome di chi non vive più, la prima forma di identità. Le iscrizioni funerarie lo mostrano da sempre e sembrano in alcuni casi – solo ad esempio il ‘Muro dei Nomi’ del Memoriale della Shoah a Milano – gridarlo. Ecco allora che prima di ascoltare le storie dei ‘lasciti’ si deve conoscere il nome dell’uomo o della donna responsabile del lascito: Nadine Gross, Celal Talyp, Michael Schwery, Jeanne Bellengi, Richard Frackwlak, Gabrielle von Brochowsky, Annemarie e Günther Wolfarth, Alexandre Bergerioux sono i nomi scritti accanto alle stanze. È questo l’ordine con cui ho pronunciato questi nomi, un ordine che lo spettatore di Nachlass sceglie solo in parte liberamente perché il count-down degli otto minuti, collegato all’apertura automatica della porta, incide, o può incidere, nella scelta delle stanze in cui entrare.
4. Racconto. Otto storie per nove personaggi. Nadine Gross è una voce che trema in un piccolo teatro d’antan. Aspettiamo che arrivi sul palco, di vedere il viso di questa anziana donna. Non accadrà, perché lei ha scelto di consegnare la sua eredità soltanto alla propria voce, la stessa che avrebbe desiderato far risuonare sulla scena ma che la sclerosi multipla ha spezzato. La sua scelta di fronte a una vita-non vita è racchiusa in una asciutta e convinta dichiarazione: “martedì prossimo, 18 agosto, andrò a Basilea, in Svizzera. A morire”. Queste parole si confondono nel suo canto incerto e toccante di una canzone, che è la memoria più lontana, persa nel tempo dell’infanzia, della vita che avrebbe voluto. Celal Tayip si mostra da un video. È un robusto e ironico commerciante turco, vissuto a Zurigo, che ha un pensiero dominante: la preparazione accurata del suo funerale, che in parte vediamo prima che accada attraverso lo stesso Celal mentre indossa il sudario bianco musulmano o si compiace della bellezza della bara dove riposerà. Il suo nachlass è la storia di un nostos, di un estremo ‘ritorno’: tornare alla terra madre, Istanbul, tornare alla madre terra, dove riposa chi non è più. Ha predisposto tutto per la sua morte anche il base jumper Michael Schwery che trascina nel suo folle volo noi ospiti della sua claustrofobica stanza, che vediamo scorrere sotto di noi, in uno schermo, le immagini dei suoi piedi che a fatica avanzano e la sua voce nel prepararsi al salto nel vuoto da una impervia parete rocciosa. Il coinvolgimento fisico ed emotivo è massimo e allo scoccare degli otto minuti, contemporaneamente all’interruzione brusca dell’epilogo del volo di Michael, il fiato per un attimo si interrompe. Il volo verso l’ignoto, che ricorda quello memorabile del tuffatore della Tomba di Paestum, è ciò che Michael vuole far restare di lui. Sostare nella stanza del piccolo soggiorno borghese di Jeanne Bellengi rassicura. Almeno fino a quando la sua pacata voce di signora anziana non ci esorta a prendere e guardare alcune delle foto sparse sul tavolo attorno al quale sediamo e dice “le foto sono un po’ come i corpi dei morti”: il tempo, reso visibile da due sveglie sul tavolo, fa il suo mestiere. Jeanne, un’orologiaia, è morta nel 2016. Lascia il ricordo frammentato di una vita ordinata e, almeno all’apparenza, serena. Se non c’è ricordo, non c’è nessuna vita. Non ha dubbi il neuroscienziato Richard Frackowiak, che ci accoglie in un luogo fatto di geometrie e luci da studio medico. Seduti davanti a uno schermo, vediamo riflesso il nostro volto. Pochi istanti e vi si sovrappongono, cancellandolo, i volti degli altri ospiti nella stanza, alcuni nitidi, altri offuscati. Il professor Frackowiak ci parla di degenerazione del cervello, di invecchiamento, di demenza senile. Si rivolge a noi singolarmente, come fa un medico quando deve comunicare al paziente una diagnosi, grazie a delle cuffie che ognuno di noi indossa, isolandosi dagli altri. Isolamento è lo status di chi è colpito da demenza senile o dall’Alzheimer. Confusi e disorientati, infatti, lasciamo la stanza in cui Frackowiak ha raccontato di un vivere che è per lui morire e che il progresso della scienza potrebbe, almeno in parte, procrastinare e arginare, di un vivere che ha comunque in sé connaturato il seme quotidiano del morire e che dopo di sé ha il nulla. Eppure Une jeune fille de 90 ans, meraviglioso film-documentario di Valeria Bruni Tedeschi, girato nel reparto geriatrico di un ospedale francese, mostra come la danza (del coreografo Thierry Thieu Niang) possa contrastare realmente l’isolamento e l’oblio cui sembrano condannati i malati di Alzheimer e far affiorare la vita nonostante l’assottigliarsi delle capacità cognitive ed emotive.
L’ambasciatrice dell’Unione Europea in Africa, Gabrielle von Brochowsky, racconta i progetti sulla sua eredità chiedendoci di aprire le scatole di cartone impilate che contengono pezzi della sua vita, come se da un momento all’altro dovesse partire. Nel toccare i suoi documenti, le sue foto, gli oggetti di artisti africani che ha sostenuto, il suo Nachlass appare molto concreto e il suo nome troverà memoria attraverso il lavoro della sua fondazione. Ci aspetteremmo anche dal banchiere Günther Wolfarth una eredità lavorativa ma le parole che ci rivolge insieme alla moglie Annemarie nella stanza del suo ufficio sono inequivocabili e lapidarie: “Non credere all’ideologia. Questo è ciò che vorrei tramandare”. L’ideologia a cui fa riferimento è quella nazista, esperita in prima persona e all’inizio abbracciata con ingenuità, senza l’accorta valutazione delle mortali conseguenze. Un lascito soprattutto per i giovani come è giovane la donna a cui vuole consegnare la propria eredità Alexandre Bergerioux, colpito da un male incurabile. Il ricordo di un padre vivo e vitale, come l’acqua del fiume dove va a pesca, è quello che Alexandre vuole donare di sé alla figlia. Il dialogo tra padre e figlia avviene da due punti estremi della stanza, il video che proietta immagini e parole di Alexandre, e le foto della giovane figlia su un comodino. Tra loro, noi, seduti su un letto matrimoniale, viviamo per otto minuti, insieme a loro, la tenerezza di questo ultimo dono.
5. Nachlass, il ‘lascito’, l’eredità’. Quello che siamo e quello che nella vita siamo diventati costituisce il nucleo del nostro Nachlass. Ciò che si sceglie di lasciare dopo la morte ha lo stigma della vita.
6. Sans personnes, l’ ‘assenza’ . Costruire un immersivo viaggio artistico-teatrale annullando il contatto fisico del teatro. Nessun attore, nessun corpo vivo è in nessuna delle otto stanze. Sottrazione di corpi, di presenze ‘fisiche’ perché la morte, inevitabile protagonista del Nachlass, è sottrazione e assenza.
7. Noi. Fin dall’inizio del percorso ideato dai Rimini Protokoll il nostro sentire è orientato da spazi, oggetti, parole che ci riguardano profondamente perché interrogano senza retorica il mistero vita-morte. Il nostro sentire – razionale, psichico, emotivo, fisico – è variamente sollecitato negli incontri con Nadine e gli altri e in quelli con i fortuiti compagni di viaggio tra ombre. Attenzione, attesa, empatia, sguardo e ascolto concentrato e dinamico, teso a comprendere e conservare, oltre il tempo degli otto minuti, alcuni frammenti di memoria che ci sono stati consegnati. Ma il progetto lascia aperta anche la possibilità che ci si ribelli, che lo ‘spettatore’ dica: non mi interessa ricevere il lascito di questi estranei, mi dà tristezza pensare alla morte, rinuncio all’esperienza e vado via. Come altri progetti dei Rimini Protokoll, anche questo si basa sull’intesa e la partecipazione di chi vi prende parte: il teatro non è più scena e platea, attore e pubblico. E’ invece una scelta volontaria e si può tramutare anche per paradosso in ribellione: i partecipanti possono rifiutarsi di entrare nell’intimità delle stanze, un istinto che può assalire in un qualsiasi momento e Nachlass mette in conto la libertà di scegliere come finire il proprio viaggio anche per noi.
8. Otto, più di numero. Forse aspettativa della sopravvivenza o, per chi crede, della resurrezione. Forse prefigurazione dell’infinito.
Bye – Adieu – Ciao. Le ultime parole di Nadine, Celal, Jeanne, Annemarie o Alexandre.
Visto al Piccolo Teatro Melato di Milano il 19 gennaio 2018