RUMOR(S)CENA – ROMA – Uno spettacolo surreale, grottesco, che ti stritola con leggerezza, questo Acqua di colonia, scritto diretto e interpretato da Elvira Frosini e Daniele Timpano (finalista Ubu 2017), tornato a Roma dopo otto anni, al Teatro Basilica. Un riuscitissimo esempio di teatro politico didattico in perfetto stile brechtiano, con un continuo va e vieni tra straniamento, inabissamenti emotivi, chiose, satira tragicomica, demistificazione, documenti. L’oggetto è la rimozione del colonialismo italiano, l’ignoranza sul medesimo, la sua edulcorazione all’insegna del motto italiani ‘brava gente’ che gli attori ci segnalano come ancora allucinantemente riproposto in un titolo dell’Unità (forse non più tanto di sinistra) del 2015. La gente non sa, perché raccontato poco a scuola, ma soprattutto perché per gli Italiani è ancora comodo reputarsi antropologicamente diversi, miti, non colpevoli.
E’ comodo infatti vedere il fascismo come una luce con qualche ombra. E Mussolini come uno statista. E non è questione di studi ed intellettuali: è il non voler vedersi allo specchio, a prescindere. Non mancano infatti gli interventi, anche se recenti. Già Angelo Del Boca chiariva bene le atrocità del nostro colonialismo, in Italiani, brava gente? (2005). E sulla vera natura di Mussolini ha fatto recentemente chiarezza lo sterminato romanzo cronaca di Antonio Scurati M. Il figlio del secolo (2018), da cui l’omonima serie TV di Joe Wright (2025), ancora più chiara nell’evidenziare la bestialità violenta intrinseca al fenomeno, su cui pochi anni prima insisteva, sempre demistificando, Aldo Cazzullo, in Mussolini il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo (2022).

Ma è appunto questo il punto dello spettacolo, che si situa al passo se non in anticipo su questo filone. Vuole spiegarci perché dovremmo vergognarci, e forse anche perché non lo facciamo. L’assunto infatti trascende i 50 anni di colonialismo storico italiano (circa 1880-1940), per delineare, nella cultura occidentale (se non addirittura nella storia), un coagulo di razzismo ed imperialismo strutturali, a cui la deformazione della realtà è strutturalmente organica, un colonialismo eterno, a ritroso, dall’Italia liberale, a Cristoforo Colombo, e giù giù fino ai Sapiens che fanno estinguere i Neanderthal.
Così i due attori in scena cominciano con una chiacchierata dove lei si lamenta di quelli che la importunano al bar per vendere rose. Prova rabbia, poi si sente a disagio. Lui le spiega che è il senso di colpa colonialista, ma concludono che nessuno ne sa niente, neanche i colonizzati, e che è roba passata. Poi certo cominciano ad interrogarsi, rievocare, provocare il pubblico, un po’ come censori e predicatori (straniamento brechtiano), ma spesso colludendo col pubblico colpevole, ed addirittura immedesimandosi. Perché certo l’altro assunto dello spettacolo è che più tentiamo di lavarci (l’acqua di colonia del titolo), immedesimarci, rimediare, più distorciamo, ce la raccontiamo, con falsi pietismi, e soprattutto più perpetriamo l’esclusione della voce delle vittime, spesso impersonati comicamente come il negretto stereotipo, a chiedere una parte in scena, che con stizza gli viene concessa, ma a patto che reciti lo stereotipo: fai qualcosa di ‘africano’.
Così, accompagnate da loro mimiche sempre più accese, comico grottesche, si passa dall’elenco di fonti della propaganda d’epoca, a voci quasi dell’oggi.
Se quindi le canzoni e le guide turistiche d’epoca alternano un Africa solare e turistica, un colonialismo ameno, pur avvertendo di mantenere la separazione delle razze, poi abbiamo la romanticizzazione di chi non conosce, o anche se conosce distorce, e si va dall’Aida verdiana, con la sfortunata etiope che muore per amore (ma all’opera in Egitto ci andavano gli Europei), ai deliri immersivi di La mia Africa, di Karen Blixen.

C’è poi un uso del grottesco, dell’humor noir, dove affermazioni normali slittano pian piano o improvvisamente, nel proprio opposto. Si propongono la redenzione conoscitiva, ma poi se ne escono così, “Morti, gas tossici .. Queste cose non interessano a nessuno .. nemmeno a me”. Eppure sembra che continuamente i due si pongano il problema di istruirsi, ed istruire il pubblico, di capire. Ma in realtà la vera informazione non è nella didassi, nei fatti, ma nel loro stesso inscenare il continuo tradimento della loro volontà di autoredenzione, non appena non sorvegliano più il proprio naturale modo di essere. Loro dunque, come noi, falsi didatti, falsa coscienza dell’Occidente. Falsa recita della colpa. Per esempio, ad un certo punto, scartato il noioso elenco dei fatti, pensano di provare l’immersione immaginativa. E questo è quello che ne esce
“Facciamoli entrare dentro piano piano …. un flashback, un sogno .. dopo una battaglia, dopo un genocidio .. Fumo, luce suggestiva .. avanziamo lentamente sulla scena … tra cadaveri .. E’ pieno di peluches indigeni africani .. indossiamo le maschere antigas di Topolino .. Abbiamo gli orecchioni neri in testa .. come topolino in Abissinia (allucinante propaganda coloniale radiofonica per l’infanzia) .. E’ pieno di pelouche, che parlano la lingua muta .. e ti guardano ,, con questi occhioni grandi, che fanno tenerezza .. Sono morti … Gli abbiamo ammazzati noi ! Ricordi d’infanzia .. Devono scontare il fatto che gli abbiamo voluto bene .. Sono diversi da noi .. un’altra specie, un’altra razza .. Che schifo !! Li raccogliamo tutti, in un sacco dell’immondizia, nero. Il sacco è pieno di cadaveri pelosi. Lo buttiamo fuori scena, così finalmente la scena rimane vuota .. e c’è spazio per noi”

Un coacervo allucinante. La pietà infantile, la tenerezza, nella loro immaturità infantile, declinano all’orrore. I peluches cadavere, simbolo dell’indifeso, sono pattume. Non ci deve essere spazio in scena per loro. Non visibilità o parola. Spazio? Per noi! Viene in mente l’hitleriano lebensraum (spazio vitale), che è poi la radice capitalistico rapace di ogni colonialismo ed imperialismo. E si potrebbe continuare, dalle amare comiche su un Pasolini professorino dell’alterità, che nei fatti emargina un petulante Ninetto negroide, alla lettura in scena di uno dei temi di bambini delle elementari (anni ’80), raccolti da un’antropologa, dove emerge il coacervo di pietismo e razzismo ancora da noi passato evidentemente ai prossimi fin dall’infanzia. Certo. Perché oggi come ieri. Così, citato il folle rapper da stadio del 2014 (che confondono con la Fallaci), “Odio il kebab e il ramadan”, proseguono così “Li ributtiamo a mare! E noi al mare, ma sulle spiagge, con gli occhiali da sole. Il colonialismo non esiste! Abbiamo fatto solo qualche stragiuzza .. Certo, anche dopo, l’Eni, Ilaria Alpi .. Ma poi … ci siamo ripuliti , con l’acqua di colonia. Tanti progetti pro Africa”. Sembra dominare il disvelamento comico critico, ma il tragico è efficacemente sempre lì.
Nella prima parte dello spettacolo infatti, su una sediolina da bambini a centro scena, sta seduta una elegantissima e muta donna di colore (ogni sera una diversa). Una testimone muta, emotiva severa dell’ipocrisia delle nostre parole e rappresentazioni, ma anche il simbolo della tortura del non aver parola. Eppure è quasi una presenza sacra, una saggia tenera muta accusa. Ma non basta, e nel secondo tempo si alza e si siede in platea. La sedia ora è vuota, mentre simulacri pagliacci di negretto stereotipo chiedono continuamente la scena. E alla fine la scena sarà riconquistata. Con un urlo viene buttato in scena il peluche di una scimmietta, che viene posto come sostituto muto sulla sedia. E’ il portavoce muto e patetico di quei cadaveri peluches di prima ? Le note ci dicono che è il bambino tipo dell’Unicef, il Cristo redento del nostro pietismo. Ma quando la voce off gli dà la parola, parla in realtà con la lucidità pacata di un adulto, distruggendo l’Occidente e la sua ipoocrisia
“Ciao. Sono l’essere piagato da infinite miserie .. Ho fame. Sto morendo di inedia. Ho le malattie, e infezioni. Malformazioni. Sono profugo .. Mi hanno sgozzato i genitori, violentato le madri, ucciso i parenti .. Non ho da mangiare, da dormire, da bere. Non vado a scuola, non gioco e non rido .. Solo ogni tanto sorrido .. Perché dicono che i miei primi pian funzionano .. Foto video pubblicità film .. La raccolta fondi .. funziona .. buco lo schermo .. spacco !! Solo che non mi fanno mai parlare. Io parlerei. Ma forse pensano che non so parlare, che emetto suoni gutturali .. Ma ormai l’esperienza ce l’ho .. Parlo 5 lingue. Sono 60 anni che lavoro con Unicef, Amref, Cisp, Cosd, Action aid, Operation smile, Save the children.
Sarebbe ora che mi facessero parlare. Ma parlano sempre loro, gli attori, i doppiatori …. Mettono la musica tragica, strappalacrime .. Voci di fondo che parlano con toni caldi lenti .. depressi, tragici. Con il sottotesto “Sentiti una merda. Sentiti in colpa, stronzo ! .. e sgancia i soldi .. ECCO .. sarebbe ora che mi facessero parlare. Avrei due cose importanti da dire. La prima è che il vostro cinema, la televisione, la pubblicità fanno pena. Dormite .. Non ve ne siete accorti ? I vostri registi, così come i vostri intellettuali .. sono annoiati, senza idee, penosi. Sarebbe ora di rinnovarvi. E anche che mi pagaste i diritti, e i miliardi di pose in arretrato
Grazie …
Il risultato? La terribile verità dei senza voce. Dall’arco di fondo scena, nel buio, emergono lei e lui, in nero, con le nere maschere antigas di Topolino. Avanzano inesorabili e silenti alle sue spalle, con stridente sottofondo sonoro. Lo sollevano, aprono un sacco nero, ce lo mettono, lo buttano via.
Come nel sogno iniziale. Il cadavere di peluche si è reincarnato solo per eternamente morire, nel silenzio di oggi e di sempre, come il Cristo, e senza la possibilità che Dostoevskij gli dà nei Karamazov, di guardare l’inquisitore negli occhi, costringendolo alla sconfitta. No. Lo prendono alle spalle. Non si può guardare in faccia la verità. Il silenzio stampa è arte mafiosa.
La manipolazione dell’immagine arte moderna. Il pubblico, attonito, fermo al nunzio sta, e benché si senta compartecipe della merda, si illude anche che no, ed esplode in applausi.
Acqua di colonia, Testo, regia, interpretazione Elvira Frosini e Daniele Timpano – Consulenza Igiaba Scego – Voce del bambino Unicef Sandro Lombardi – Aiuto regia e drammaturgia Francesca Blancato – Scene e costumi Alessandra Muschella e Daniela De Blasio – Disegno luci Omar Scala – Uno spettacolo di Frosini/Timpano – Produzione Gli Scarti, Kataklisma teatro – Con il contributo produttivo di Teatro della Tosse – RomaEuropa Festival, Accademia degli Artefatti – Con il sostegno di Armunia Festival Inequlibrio – Teatro Basilica, Roma, 19-23 febbraio 2025