RUMOR(S)CENA – ROMA – Un tentativo coraggioso ed interessante quello di Matteo Fasanella – in Giacomo Leopardi. Darkmoon – di confrontarsi con un Leopardi immaginario, al contempo il poeta ed altro da sé. Un’operazione anche arbitraria se vogliamo, ma che in qualche modo aiuta ad ingigantire ed evidenziare secondo altra luce il disagio leopardiano, secondo una immaginaria linea traumatico adolescenziale. Del resto, uno dei segni della grandezza di Leopardi è la tendenza ormai consolidantesi, a farne di tutto. Qui licantropo, altrove omosessuale. Forse un giorno comunista. L’idea di questa deriva gotica non è tuttavia recente, e non è di Fasanella, ma risale ad un romanzo del 1990 (ripubblicato 2016) di Michele Mari, apprezzato anche da Manganelli, Io venia pien d’angoscia a rimirarti”, dove lo scrittore immagina un Leopardi quindicenne descritto nella sua conturbante irrequietezza nel diario del fratello minore, Orazio, dove sul fratello aleggia il sospetto di licantropia, in seguito ad episodi di sgozzamento di pecore e cani avvenuto allora.

Fasanella segue fedelmente il testo nella sostanza, ma sposta il tutto di qualche anno, trasformando il sospetto di allora in una memoria rimossa che lentamente affiora, mischiandosi ai tormentati filosofemi esistenziali del poeta, la cui indagine sul senso della vita diventa l’angoscia del mistero di se stesso. Ma soprattutto diventa angoscia rabbiosa, rabbia e disperazione esistenziale. Rabbia esistenziale ed angoscia attorno alla quale ruota il concerto fraterno, tra frustrazione attrazione ansia amore. Vediamo così il tormento di Orazio nel reggere la competizione col fratello, che sembra ora disprezzarlo per la fuga nel lavoro in posta. Un tormento che si vela di ironia e distanziamento per reggere la ferita. E vediamo la sorella Paolina, soprannominata Pilla, che veleggia tra i due, angosciata dal loro dissidio. Invasa dall’adorazione per il fratello poeta e pensatore, tenta di avvicinare i due fratelli, magari anche infantilmente, prolungando l’unione infantile nel gioco. E mentre i tre suonano la musica da camera di questi tre registri, rabbia saccente adorazione frustrazione, come un minuetto a passo comandato, alternandosi in scena con posizioni a uno, due , tre, in interazione e in solitaria (gli altri in stop motion), pian piano si insinua l’ombra lunga del lato oscuro (dark).
Si parla dell’episodio dello sgozzamento, nel passato, perché sembra risuccedere. Pilla è inquieta. Orazio la irride. Giacomo Leopardi, tra loro soprannominato Salesio, disquisisce, sulla luna, sui lupi, con precisazioni saccenti e rabbiose. I lupi viaggiano in branco, e non sgozzano. Il cacciatore farà col lupo come fece S.Francesco? No. E’ una balla della Chiesa, per il popolo. Il cosiddetto segno della croce fatto dal santo sarebbe stata in realtà una croce sulla pancia del lupo, a squartarlo, per salvare il paese. Salesio sembra sempre più isterico, e legge libri sulla licantropia.

Cosa vuole scoprire? È lui il licantropo? E la rabbiosa demistificazione del mito francescano adombra una fantasia di autopunizione? Dal canto loro Pilla e Orazio indagano un libro di famiglia, da cui emergerebbe la figura di un avo, nel seicento, Sigismondo Salesio (Salesio, come Giacomo), che fu chiaramente un licantropo. Orazio non ci crede, Pilla sì. La scena si avvita in un parlato a tre (in voce off), dove Salesio recita le interrogazioni alla luna del ‘Canto notturno di un pastore errante per l’Asia’, Pilla compita i fatti su Sigismondo letti nel libro di famiglia, ed Orazio parla della licantropia, meccanismi ed ereditarietà. È un crescendo, finché Salesio (Giacomo) esplode, confessando di essere stato lui anni prima a sgozzare le pecore, ed accusa Orazio di averlo sempre saputo. Perché solo ora lo dice? Perché solo un episodio di licantropia e poi non più?
Perché aveva dimenticato rimosso. Era come un sogno lontano. Ed era stato solo allora perché il passare dall’ossessione dell’erudizione alla poesia sulla luna come ricerca di quel lunghissimo vero che giace sul fondo delle cose e della loro musica segreta, questa conversione al sapere come poesia del vero, aveva ucciso la bestia. La bestia. Questo è il punto interessante. La bestia in Leopardi. Il rimosso della frustrazione esistenziale che esorbitando dalla pura polemica filosofica, si fa sadismo inconscio, violenza allo stato puro. Il poeta che per primo aveva ucciso il chiaro di luna, il dialogo inesausto con la quale è da vedersi come il simbolo stesso della sua solitudine, risulta come fagocitato dunque dal lato mortuario della luna, come vuoto e solitudine, ingorgo dell’eros. E non a caso la luna giganteggia, nel bene e nel male, dilatandosi alla fine anche ad oggetto scenico: la luna che uccide, la luna che salva, la luna che tace; la luna del poeta lunatico; la luna della follia. E si bonifica quando lui riesce a donarle stupefatto amore, e a smettere di essere spettatore solitario della propria vita. Come a dire rinascere rovesciandosi nel mondo come nel vero, fuor di solitudine, del soffocante circolo dell’ego.
Gli attori sono tutti bravi, anche se all’inizio penalizzati da interazioni in un contesto un po’ statico, in un icastico spazio delimitato da tre panche ed una libreria, dove il recitato è a turno, ed un po’ accademico. Poi si scalda man mano che crescono i conflitti, e giochi di luce e voce off, uniti alla musica, alzano la dinamicità chiaroscurale. Cresce allora il lato dark, che tuttavia già dall’inizio porta energicamente avanti lo splendido Giuseppe Coppola (il poeta), da subito eccessivo nella tracotanza saccente, nell’isolamento sofferto, nei rari cedimenti al rapporto nella fratria, e che va sempre più crescendo in una rabbia disperata (forse un po’ urlata), che si fa quasi ruggito. Recita bene la parte che poi emerge a verità, la bestia ferita, la belva, la vittima dello stralunato illupamento. E lo fa anche intelligentemente appoggiandosi ad un costante stilema posturale (non nuovo peraltro agli interpreti anche cinematografici del poeta). Cammina infatti sempre più piegato ad angolo retto, sicché il guardare diventa faticoso torcere in alto il viso, in stralunamento.
La gestualità dell’imbestiamento infine ha il suo culmine quando si unisce alla maestria dark di Fasanella nel giostrare le luci. Ora sul fondo troneggia su un pannello la superficie rugosa di una gigantesca luna cretacea (opera di Alessio Giusto), prima resa fosforescente da luci verde blu, poi splendente di un abbacinante riverbero biancastro. E tra la luna e la panca di fronte, qualcosa si agita a terra. Coppola-Leopardi pian paino emerge, si alza, zombie burattinesco, a scatti, le braccia aperta ad ala, le mani appese. Ultimo singulto di imbestiamento. Poi? Luce.
Leopardi dormiente. Era un sogno? Ricala il buio, ed una voce off blandisce i tormenti di tutti loro. È normale. La crescita porta meno intimità, ma poi unione. Ora i tre fanno un girotondo infantile, a presentificare questo volontarismo affettivo, e forse la nostalgia dell’infanzia perduta. Poi tornano il buio ed una musica inquietante, e dietro, gigante, la luna, mentre loro si sgranano nello spazio, staccati, statue silenti in stop motion. E pare dunque che nulla si sia veramente acquietato. E su questo climax visivamente coerente, inizia lento e crescente l’applauso.
Giacomo Leopardi. Darkmoon. Liberamente tratto da “Io venia pien d’angoscia a rimirarti” di Michele Mari, Drammatugia e Regia di Matteo Fasanella. Con Sabrina Sacchelli (Pilla, sorella di Leopardi), Nicolò Berti (Orazio, fratello di Leopardi), Giuseppe Coppola (Salesio, cioè Giacomo Leopardi). Aiuto Regia Virna Zorzan, Assistente alla Regia Lorenzo Martinelli. Costumi Darkside ETS. Allestimento scenico Alessio Giusto. Disegno luci Matteo Fasanella. Foto e Grafica Agnese Carinci. Ufficio Stampa Andrea Cavazzini
Darkside Labtheatre Company
Visto al Teatro Cometa Off di Roma il 19 marzo 2025